Iscriviti alla Newsletter:
Il Futuro è la Pace
Home Notizie Chi ha paura del lavoro
Chi ha paura del lavoro
Domenica 15 Agosto 2010 09:53

Chi ha paura del lavoro

di Ilvo Diamanti

La_catena_di_montaggio

C'ERA una volta il lavoro... Garanzia di reddito, riconoscimento, posizione e mobilità sociale. Dava senso e speranza nel futuro. Principio istituzionale e costituzionale su cui si fonda la Repubblica, ha fornito lo statuto della nostra identità pubblica e privata. Il lavoro. Bisognerà ripensarci e ripensarlo, perché oggi non è più in grado di assolvere a questi fini. Non solo perché ormai è volatile e globalizzato come l'economia. Spostare la produzione  -  e l'occupazione  -  in Serbia, Romania, Cina o Tunisia è questione di costi e benefici. E non da oggi. La delocalizzazione non l'ha certo inventata la Fiat di Marchionne. È che si è creato un divario troppo largo fra il significato e la realtà.

Fra il ruolo attribuito al lavoro nell'organizzazione e nell'etica  -  sociale e personale. E ciò che sta diventando ed è divenuto. Nei fatti. Possiamo insistere sulle virtù  -  e sulla ragionevole esigenza  -  della flessibilità. Tuttavia, genitori e figli, giovani e adulti continuano a preferire il posto fisso. Per il 60% degli italiani: uno dei due requisiti privilegiati nella ricerca del lavoro (Demos, Gli Italiani e lo Stato, Novembre 2009).  Peraltro, il 47% delle persone (Demos per Unipolis, Osservatorio sulla sicurezza, Maggio 2010) oggi considera la disoccupazione  -  cioè: la perdita oppure l'assenza di lavoro  -  la prima preoccupazione. Nel 2007 questo problema era ritenuto prioritario da poco più del 20% dei cittadini (Demos, Gli Italiani e lo Stato, Novembre 2007).

Non si tratta di una paura localizzata, che tocca le aree più vulnerabili del Mezzogiorno. La disoccupazione, infatti, è in testa anche alle preoccupazioni della popolazione di Vicenza. Mitico cuore del mitico Nordest. Dove si rilevano da decenni i minimi indici di disoccupazione. Ebbene, nel Vicentino, 1 persona su 2 (per la precisione: il 49,2 %) considera la disoccupazione la prima emergenza da affrontare (Demos per Associazione Industriali e Fondazione Palazzo Festari, 1300 interviste, Maggio 2010).  Nel 2003: 13,2%. Nel 2001: 8,1%. La paura di perdere il lavoro, cioè, fra i vicentini è aumentata del 600% in meno di dieci anni. Il che, ovviamente, si giustifica, in parte, con la "disabitudine" a un problema, in precedenza, irrilevante. Tuttavia, anche per questo, il lavoro appare indebolito nella gerarchia dei valori personali. D'altronde, non gratifica più come una volta. Si dice, infatti, soddisfatto del lavoro il 56,8% dei vicentini. Dieci anni fa era l'80,8%. E se ciò succede a Vicenza, una società totalmente coinvolta nel lavoro, figurarsi altrove.

Anche in questo modo si spiega lo slittamento verso il basso della posizione sociale ed economica percepita dalla popolazione. Oggi,  infatti, il 49% degli italiani dichiara di appartenere ai ceti popolari oppure alla classe operaia. Sì, proprio alla "classe operaia". Così si definisce ancora il 37% degli italiani. Anche se gli operai, notoriamente, non esistono più. Sono scomparsi insieme al lavoro. E per dimostrare la propria esistenza debbono ricorrere a proteste clamorose. Fino ad allestire un'Isola dei Cassintegrati all'Asinara. Rischiando di passare per giapponesi che continuano la guerra. Senza sapere che la guerra è finita. Da tempo.

Tuttavia, un italiano su due oggi si sente classe operaia o popolare: 10 punti percentuali più rispetto al 2006. Mentre il 44% si colloca fra i ceti medi. (Era il 53% solo 4 anni fa, quando la società italiana era davvero "media".) Il residuo 5-6% (costante nel tempo) si sente e si dichiara "borghesia, classe dirigente".  Lo ripetiamo: c'è uno squilibrio ampio tra il significato e la realtà del lavoro. Il lavoro continua ad avere un ruolo prevalente nel definire non solo la condizione, ma anche la posizione sociale, le aspettative e gli orientamenti delle persone. Lo stesso Berlusconi utilizza la propria biografia "professionale" come esemplare. La prova che "tutti ce la possono fare". Partire dal nulla e arrivare in cima al mondo (o, almeno, fino ad ora: all'Italia).

Eppure l'italian dream, che egli interpreta ed esibisce, oggi non funziona più. Se il lavoro genera solo - o prevalentemente  -  preoccupazione. Se, invece che un "ascensore sociale", diventa uno "scivolo". Che spinge quote crescenti di popolazione nella "classe operaia". Cioè: nell'oblio, visto che la classe operaia è stata cancellata. Mentre gli attori che ne rappresentano gli interessi appaiono sempre più periferici. Gli stessi sindacati godono (si fa per dire...) della fiducia di circa un quarto della popolazione. E di poco più del 20% tra i lavoratori. D'altra parte, la loro base di iscritti è in maggioranza composta da pensionati.

Intanto, quasi 2 italiani su 3 ritengono che negli ultimi 5 anni la loro posizione sociale sia peggiorata. Un destino che interessa il 72% di coloro che si sentono classe operaia. Difficile, dunque, non porsi qualche dubbio sul nostro futuro, se il fondamento della nostra carta costituzionale, cioè il Lavoro: a) non offre certezze durature e tanto meno stabilità, al Sud, al Centro, al Nord e perfino nel Nordest; b) diventa il principale fattore di preoccupazione sociale e familiare; c) non genera mobilità sociale, se non verso il basso; se, ancora, d) metà della popolazione si sente classe  operaia (e popolare) ma si insiste a negarne l'esistenza.

Se tutto ciò è vero e riguarda tutte le fasce di popolazione (ma soprattutto i più giovani) allora resta da capire se vi sia una soluzione o, almeno, un rimedio. Per affrontare, o almeno, sopportare il declino del lavoro. E di tutto ciò che rappresenta, sotto il profilo fattuale e simbolico, materiale e normativo. L'unico riferimento possibile è, sicuramente, la "famiglia". Considerata, insieme all'arte di arrangiarsi, il marchio specifico dell'identità italiana dagli italiani stessi. Le vicende del nostro tempo non possono che accreditare questa idea. Vista l'importanza assunta dai legami familiari nelle attività economiche, nelle carriere professionali. E  -  in questi tempi  -  nelle vicende politiche. Tuttavia, a maggior ragione, temiamo il declino (l'eclissi?) del lavoro. Temiamo coloro che non lo temono. Ne temiamo gli effetti economici ma anche - e anzitutto -  "ideologici". Ebbene sì: il ritorno trionfale  del "familismo" ci spaventa. 

(15 agosto 2010) © Riproduzione riservata

Scritto da La Repubblica   
PDF
Stampa
E-mail
 

Aggiungi commento


Codice di sicurezza
Aggiorna