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Le Partie di Pasolini
Martedì 22 Febbraio 2011 09:38

Andrea, laureato in chimica e impegnato in ricerche sull'idrogeno, di cognome fa Paolella. Come l'eclettico regista Domenico, che realizzò impegnati documentari sociali e che, con sottile ironia, manipolò e fece combattere Ercole contro i tiranni di Babilonia e Maciste contro lo sceicco e fece di Ursus il gladiatore ribelle.

Andrea Paolella non ha clave né spade, ma è armato di un aggeggio terribile, la macchina fotografica, con cui documenta il mondo del lavoro a Reggio e con cui ha avuto l'idea pazzesca di cercare i luoghi dove Pasolini visse e operò e di illustrarli, dando caccia improba (telefonando ad es. a tutti i Franco Farolfi d'Italia finché lo trovò a Roma) agli amici di gioventù. Li ha ritratti in bianco e nero (che ha a Reggio due maestri a livello internazionale: Stanislao Farri e Vasco Ascolini), canuti o calvi nell'inesorabile piattaforma del tempo, “usuraio atroce” come lo definisce Andrea Zanzotto nel suo recentissimo Conglomerati. Abitando a Reggio come me, ha deciso d'incastrarmi quale coautore della sua pubblicazione fotografica, nonostante gli avessi obiettato che l'incarico era rischioso perché mi sarei smarrito nell'oceano immenso delle esperienze letterarie e cinematografiche e dei furori controcorrente per le inevitabili omissioni di opere e di persone che mi avrebbero attirato frecciate e bastonate o, nel meno peggiore dei casi, il compatimento.

Gli ricordai che Roberto Roversi, annotando in un articolo il bel libro di Enzo Golino sul Sogno di una cosa, aveva evocato l'arroganza e la violenza delle celebrazioni esasperate su Pasolini “che è stato tutto”. E ne faceva l'implacabile elenco: calciatore, pittore, musicista, naturalmente poeta, scrittore, drammaturgo, regista, sceneggiatore, politico, pedagogo, viaggiatore; e che “così confezionato” risulta utilizzabile per ogni occasione celebrativa dove si riverbera spesso un senso di raggelata rispettabilità che un poco confonde e un poco smaga.

Ma con Andrea non ci fu verso. Non ammansito dai 32 gradi del liquore di mirto della Sardegna che gli offrivo per far cadere la proposta nell'oblio, insinuò: “Hai carta bianca per scrivere quello che vuoi” e io, incosciente, alzai la bandiera bianca della resa. Che referenze avevo per l'incarico? L'esperienza poetica di “Eredi” con i giovanissimi Pasolini Roversi e Leonetti, l'aver collaborato allo “Stroligut” e al “Quaderno Romanzo” con saggi su Nievo e la Percoto, l'aver fortunatamente salvato le lettere indirizzate a me da Pier Paolo dal 1941 al 1953, l'ospitalità affettuosamente offerta dai miei genitori (che considerava una seconda famiglia) a Bologna in via Arienti 33 quando tornava da Casarsa e magari era una “spugna di sonno” e in particolare alla fine del 1945 quando si laureò, e l'essergli stato ai tempi dell'università e poi del rapporto col professor Calcaterra il “solito fattorino” secondo la definizione limitativa di Barth David Schwartz: spezzoni della mia vita giovanile prima che diventassi insegnante, mi trasferissi da Bologna a Reggio e mi sposassi felicemente con Ida Maria nel 1956.

Quanti sono gli amici morti (ultimo Fabio Mauri nel 2009) e vivi che vissero, come scrisse Silvana sorella di Fabio, nel “pulviscolo d'oro della giovinezza”, entro quel mito purissimo e incancellabile per noi di Pier Paolo che fu, come ha scritto Farolfi, “maestro dei suoi coetanei”? Quanti di noi parteciparono all'affollata gita notturna “rimasta nella nostra leggenda” come ha scritto Mario Ricci, sulle colline bolognesi percorse dalle luci della contraerea e dall'abbaiare dei cani, scalando calanchi e danzando al sole nascente del mattino? Ricordandola, ho scritto che fu l'espressione della gioia di essere giovani e vivi, perché “eravamo il passato, il presente, il futuro: così, almeno, credevamo”.

Paolella ha fotografato, degli amici di allora, solo i dieci che è riuscito a rintracciare e a captare, e io sono il superstite più anziano (in una mia poesia mi sono augurato: “non vecchio vorrei essere ma antico / come la luna”). Eccone i cognomi con fra parentesi l'età che avremo nel 2010: Serra (90) Zanzotto (89) Farolfi (88) Roversi (87) Leonetti e Zigaina (86) Bemporad (85) Scalia (82) Naldini (81) e Spagnol (79). Una galleria di ritratti di avi o un album di famiglia in cui le misure della luce e del buio o dell'ombra scolpiscono le figure e le stanze, e negli effetti del bianco e nero si fissano le tracce attuali delle presenze reali ed enigmatiche che domani saranno già mutate. Mi sono spinto in una cavalcata nell'assurdo e in un gioco illusorio di finzioni al limite dell'allucinazione: e ho immaginato Farolfi primario fra cartelle cliniche o scultoreo cardinale, Naldini parroco di campagna o console romano col busto imperiale dietro di lui, Leonetti l'Erode tetrarca della Galilea che scava fra memoria e oblio dei ricordi (ben diverso dal sorridente paffuto con cravattina a farfalla ritratto in un gruppo di “Officina” dove Roversi è in tensione per apparire dentro la foto), Roversi che cerca di esorcizzare col gabbiano di ceramica l'immagine della saggezza  della lucida disperazione, Scalia telamone sghembo in riposo che ironizza in bilico sullo scibile cartaceo del mondo, la Bemporad che Fabio Mauri definì la nostra George Sand per lo stravagante abbigliamento  maschile e si potrebbe aggiungere un'ebraica Gertrude Stein e qui lei che si era definita “adolescente sempre in fuga da se stessa e dal mondo” appare come ieratica milady vittoriana, Zigaina pensieroso artigiano in una bottega di corniciaio, Tonuti Spagnol unico con cravatta e che è in posa di austero dirigente ed ospita nella specchiera Chippendale caste ed erotiche statuine femminili, Zanzotto dalle favolose invidiabili bretelle con lo sguardo meditativo e disincantato rivolto a un futuro di agitate maree di speranze e timori.

Amici, non sparate sul pianista che si è esibito in futili paragoni e accettate anche quello che non intende essere un saggio critico ma una serie di divagazioni e di sconfinamenti nel campo felice e dolente della memoria.

Questa la galleria degli amici. Ma c’è un amico che non conobbe Pier Paolo e che merita di essere inserito nella ciurma come autore di quell’Eresia di Pasolini con cui ha inteso e intende, come ulteriore testimone, valorizzare l’arrembaggio del «corsaro»: è Gianni D’Elia, nato a Pesaro nel 1953, scoperto nel 1978 da Roberto Roversi che gli fece pubblicare Non per chi va, suo primo libro di liriche, dall’editore Savelli.

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Bologna, via Borgonuovo: prima abitazione di Pier Paolo nato il 5 marzo 1922, dopo un ennesimo trasferimento del padre sregolato ufficiale di carriera. Dava su un vicolo “umido e tetro”, e Andrea Paolella ne ha reso la cupa atmosfera, tra due fazioni opposte di alte case con allineamenti di finestre smisurate e misteriose e una pallida geometrica redenzione sullo sfondo. Le case saranno fra le tematiche del libro assieme alle stazioni, ai ponti, ai corsi d'acqua, ai prati e alle chiese, alle solitudini e ai silenzi che le immagini registrano come condizione assoluta. Ed ecco le prime stazioni, di Belluno (dove nacque il fratello Guido), di Cremona. Senza treni, che sono sottintesi. Trovò a Conegliano la gioia di vederli (e ne costruì come balocchi inventandoli con lapis e cannucce, e le stazioni erano scatole) e lo portavano al luminoso ginnasio dalla cui spalletta scopriva il vasto panorama dei campi; disse che più della metà dei suoi versi li aveva pensati o scritti in treno e in una cartolina dell'11 aprile 1949 mi rimprovererà di non andare a trovarlo dicendo che un diavolo teneva costantemente un bastone tra le ruote del treno che avrebbe dovuto portarmi a Casarsa. Era la missiva in cui ribatteva alle mie obiezioni sulla omosessualità di Penna e di Gide che lui invece ammirava incondizionatamente, e poteva apparire come un'ammissione di quella diversità che nessuno di noi conosceva e di cui venimmo a sapere fra pochi mesi.

A Cremona la stazione lo deluse come poco importante, ma era la prima città che vedeva e gli sembrò una metropoli, e la via 11 febbraio dove abitò è ancora oggi luminosa come allora. A Cremona lui, inadattabile, andò adattandosi, frequentò anche un corso di scherma. Di Cremona Paolella ha fissato i primi bagliori dei fanali ai giardini pubblici e il notturno grande lago di luce dell'anello centrale dove Pier Paolo si sentì “accecato dalle sensazioni”, e il Po immerso nella foschia e il Po attraversato dalla ferrea ossatura del ponte che collega scarpate cespugliose e pendii brulli.

Dal Po all'Idria: con le lame di luce che scorrono sotto il ponticello in muratura, oltre il quale sono le case bianche e, ben colte dall'obiettivo di Paolella, i bianchi bulbi dei fanali, e su tutto, sopra il bosco, domina la chiesa. Dal Po alla Livenza presso la quale si svolgevano le lotte di due fazioni fanciullesche che sembrano echeggiare nel curvo muretto e nella trina curva degli alberi. Siamo a Sacile, “raccolto nell'abbandono della pianura” con la chiesa e l'abisde con le colonne mùtile e, dietro il duomo, il Teatro Ruffo: niente a che vedere con il celebre baritono Titta Ruffo dalla voce calda e potente che si esprimeva nei ruoli truci e beffardi né con l'impetuoso motociclista Bruno Ruffo campione mondiale delle 250 per i colori della Guzzi. Il teatro è dedicato al veneto Vincenzo Ruffo compositore di musica sacra del secolo XVI che, dopo essere stato maestro di cappella a Verona, Milano e Pistoia, dal 1573 al 1587 lo fu del duomo di Sacile, e fu autore di una messa, di mottetti e salmi, di un Magnificat da 5 a 8 voci, di madrigali da 4 a 8 e dell'opera I capricci in musica a tre voci. Nei ricordi di Pasolini decenne c'è una poesia che rievoca il Salone Ruffo dentro il quale “a un film muto / è incantata una folla di fanciulli / vocianti”.

Altra stazione e altro treno, che era “il buffo trenino coi vagoni liberty”, ben diverso  dal “tremendo meraviglioso accelerato di Sacile”; ed era il locale che portava a Reggio e dietro i finestrini Pier Paolo vedeva “volare i campi”. A Scandiano abitò dal 24 giugno 1935 all'11 ottobre 1936, poi il padre venne trasferito a Bologna.

Ed ecco finalmente Bologna, in una casa in via Nosadella 48, dove conobbi la madre Susanna, graziosa e minuta, e il fratello Guido. Con una fatuità più unica che rara Franco Grillini ha affermato che Pasolini nacque in via Nosadella e visse in via Zamboni! Nell'autunno del 1936 Pasolini da Scandiano venne a Bologna, e io contemporaneamente venni a Bologna da Reggio (per trasferimento di mio padre vincitore di un concorso postale), e non ci conoscevamo ancora. Al ginnasio di Reggio, situato dove è ora la biblioteca Panizzi, avevano avuto un preside rigidissimo, Micheletti, piccoletto e coi baffetti, che rimproverava pubblicamente suo figlio come monito a tutti gli studenti. A Bologna al Liceo Galvani in via Castiglione 36 trovammo un altro preside intransigente: Ezio Chiorboli, allampanato con due baffi bianchi enormi il quale faceva chiudere il portone e poi stolidamente riuniva i ritardatari davanti alla presidenza per tutta la mattina, esaltava Tunisi italiana con alate scempiaggini e, ironizzando su un allievo che era stato bocciato, si sentì rispondere che anche lui lo era stato e quindi erano colleghi. Infatti non era riuscito a diventare libero docente di letteratura italiana, malamente illuso dall'aver curato per i classici Laterza le rime cinquecentesche del petrarchesco e bernesco Francesco Beccuti detto il Coppetta.

Per fortuna Pasolini ebbe insegnanti di alto valore: come Alberto Mocchino autore di una storia dell'estetica e mirabile studioso di Orazio oltre che intenditore di cinema, Carlo Gallavotti (di Cesena, patria di mio padre) che entusiasmò gli allievi coi lirici greci e diverrà un filologo di fama mondiale, e il laicissimo insegnante di filosofia Valli mutilato della prima guerra mondiale e irriducibilmente antifascista. Ed ebbe come supplente di storia dell'arte Antonio Rinaldi, che aveva sette anni più di Pier Paolo e lesse agli allievi Rimbaud come lezione civile e voce di libertà. L'esile e occhialuto Rinaldi, che verrà il 14 luglio 1944 arrestato con me dalle SS toscane e portato in carcere a Parma (eravamo entrambi aderenti al Partito d'Azione), era un poeta e vorrei ricordarlo con uno dei suoi epigrammi dell'autunno dove si avverte la tristezza del canto solitario del dolore: “Mi rapisce / la nube / di polvere e di sole / sopra le siepi accese, / il lume che discende / fra pergole di viti / uve dorate e tralci / alle brune culture, / ai campi arati, dove / s'apre nei solchi il buio, / canta una sole voce, / disperata”.

Al Galvani si accedeva salendo una scalinata ampia che Andrea ha splendidamente inquadrata con le potenti pareti e colonne ed archi in un'architettonica e musicale fuga di Bach. E accanto al liceo c'era la palestra scolastica ricavata nella chiesa sconsacrata di Santa Lucia, tempio sacro alla pallacanestro dove la mattina di domenica giocava la Virtus dell'altissimo Giancarlo Marinelli, del segaligno capitano Venzo Vannini, di Gelsomino Girotti, di Galeazzo Dondi e di Athos Paganelli. Capitano della squadra di basket del Galvani era, piccolo di statura ma scattante distributore di palloni e segnatore di punti, Francesco Leonetti. Roversi per conto suo tirava di scherma.

Pasolini vedeva nello sport “la più pura, continua, spontanea consolazione”, e Bologna era fra le città sportive più importanti. Anzitutto perché possedeva “lo squadrone che tremare il mondo fa” e aveva vinto nel 1934 la Coppa dell'Europa Centrale e nel 1937 si aggiudicherà il Torneo dell'Esposizione Coloniale di Parigi battendo in finale l'inglese Chelsea. Nel 1938 assieme ad Andreolo centromediano della nazionale era diventato campione del mondo l'ala destra Amedeo Biavati famoso per una mossa da lui inventata e che disorientava gli avversari: lo scambio o passo doppio o passetto che dir si voglia. Il suo cognome era genuinamente bolognese (da biada che a Bologna nell’Ottocento si diceva biava e oggi è biêva) e apparteneva sia al calciatore Amedeo sia al venditore di lamette Oreste che esibiva la sua merce nella piazza accanto alla Montagnola, dotato ironicamente di una barba pungente come pungenti saranno in tempo di guerra le sue frecciate antifasciste: “L’Inghilterra ha le bistecche ma noi abbiamo i limoni” era la più nota che lo faceva prelevare dalla polizia. Amedeo nato nel 1915 morì nel 1979 e Oreste nato nel 1890 morirà nel 1971. Per ricordarlo l’associazione dei venditori ambulanti e il comune posero una targa, in cui si dice che “con dignitosa umiltà, schietta parola, petroniana arguzia, seppe trasformare il mestiere in arte”.

Bologna era grande anche per l'atletica: si pensi a Ondina Valla (campionessa olimpica) e a Claudia Testoni (campionessa europea), a Tullio Gonnelli (medaglia d'argento olimpica) e a Giorgio Oberweger (medaglia di bronzo olimpica); e a Bologna stava emergendo anche il rugby animato nel campo dello Sterlino da studenti del Galvani, tra cui Bruno Querena, Gigi Beccari, Grazia, Baldrati. Ricordo due episodi raccomandando sempre di non sparare sul pianista. Il primo è che il Galvani trionfò nel campionato studentesco del 1938 con Tornimbeni (2° nei centro metri), Luciano Serra (2° nel salto in lungo) e Bruno Rossi (1° nel peso) che era un giovanottone mio compagno di classe alto 1,85 per 90 chili che divenne campione italiano del giavellotto e ritrovai dopo la guerra rappresentante di medicinali. Il secondo è una gara universitaria di 1500 metri a cui partecipava Pasolini: dopo il primo giro partì come se volesse battere il record mondiale e andò a infilare la scaletta del sottopassaggio per impellenti bisogni corporali. Quella scaletta dalla quale il critico d'arte Francesco Arcangeli (che scrisse anche due memorabili articoli sportivi su Alfredo Binda e Angiolino Schiavio campioni del mondo) vedeva uscire i giocatori rossoblù e di Schiavio percepiva il passo di “galoppo rattenuto e ondeggiante”. Nel 1941 la squadra di calcio di Lettere in cui giocavamo Pasolini ed io vinse il campionato interfacoltà. Pier Paolo ne era il capitano.

Gli anni pasoliniani dal 1941 al 1943 restano memorabili per le esperienze di “Eredi” e del “Setaccio” e per gli incontri e l'amicizia che legò Pier Paolo a Francesco Arcangeli, che era amico di Rinaldi, del pittore Giorgio Morandi, dello scrittore Giuseppe Raimondi, e con Morandi e Raimondi fu anche imprigionato per antifascismo. Raimondi aveva la mitica abitazione dove esercitava il commercio di stufe in via Santo Stefano e Morandi abitava nella mitica casa di via Fondazza e il sodalizio è tramandato nel loro postumo epistolario. A Bologna c'è via Morandi, c'è via Arcangeli, e c'è via Gnudi. Con Cesare Gnudi, critico d'arte e sovrintendente, con Rinaldi e col fratello Gaetano poeta, Francesco Arcangeli intendeva dopo la guerra pubblicare la rivista “Il Foscolo” e aveva chiesto la collaborazione di Pasolini e mia; ma il sogno non venne mai realizzato. L'amico “Momi” Arcangeli morirà tragicamente un anno prima di Pasolini.

Negli anni dal 1940 al '43 sotto l'egida del partito fascista si pubblicavano a Bologna tre riviste: “L'Assalto” che culturalmente si può definire quella dei giornalisti e dei cineasti con Enzo Biagi, Lamberto Sechi, Renzo Renzi, Dario Zanelli, Adriano Magli; “Architrave” degli universitari del GUF con Agostino Bignardi e Giorgio Gardini redattori politici e tanti collaboratori per gli articoli culturali, diretta prima dal professor Mazzetti e poi da Eugenio Facchini che contemperarono fascismo e giovanile fame di cultura, e sarò sempre grato a Facchini per avermi salvato la vita delle retate tedesche e ne compiangerò la morte immeritata ad opera dei partigiani; e “Il Setaccio”, notiziario della GIL, che fu, per sapiente regia del pittore futurista e antifascista Italo Cinti, trasformato da bollettino di regime a nuova vita intelligente e affidato a Pasolini che raccolse intorno a sé e coordinò per settori i giovanissimi Mario Ricci, Carlo Alberto Manzoni, Fabio Mauri, Luigi Vecchi, Fabio Luca Cavazza (che sarà dopo la guerra il promotore del “Mulino”), Giovanna Bemporad che, ebrea, Pier Paolo mutò in Bembo, Achille Ardigò futuro sociologo, Augusto Pancaldi, Alberto Vighi, i friulani Bortotto e Castellani. Di Cinti scriverà un bellissimo ricordo Mario Ricci. E ci fu fuori dell'ufficialità anche “Eredi”, dal 1941 al 1942, esperienza vissuta da Pasolini con Roberto Roversi, Francesco Leonetti e Luciano Serra attraverso incontri, mescolati con castagnaccio e vino sardo, ai Giardini Margherita, o ai piedi della statua di Garibaldi che si erge imponente di fronte al teatro che ancora conserva il suo vecchio nome di Arena del Sole, dove si svolgevano un tempo esibizioni di lottatori, di sollevatori di pesi, di forzuti come Stianchên piegavano i ferri da cavallo. Alessandro Cervellati, cultore di memorie storiche e disegnatore, e a cui è stata dedicata una via, in uno dei suoi libri ha ricordato che un imbonitore, in un francese approssimativo unito a un arguto bolognese, presentando agli spettatori il numero di forza di un Isidoro allora famoso, disse: «Isidor campiòn du mond [sic] che con la man dréta liva un quintêl e con la man stanca squéza un pomdor», e poi gridava: «Isidor!»; rullo di tamburi e poi il possente Isidor sollevava con la destra l'ipotetico quintale e con la sinistra schiacciava un pomodoro. Esperienza vissuta anche attraverso la fitta corrispondenza tra Bologna e Casarsa sulle nostre poesie vagliate e discusse. Volevamo essere i continuatori della poesia classica filtrata nella lirica moderna di Montale, Ungaretti, Sereni, Gatto (non di Quasimodo che Pier Paolo detestava) e gli altri ermetici. Pasolini ci insegnò a essere poeti. Diceva: “Il nucleo della poesia è costituito da un gioco di parole la cui validità posa su misteriosi legami e armonie” e “lasciatevi guidare dalle parole che leggete” e che “canto non significa cantabilità”. Enzo Siciliano scriverà che i quattro avevano «la spasmodica volontà a essere poeti».

Che cosa abbia rappresentato Bologna per Pasolini si può dedurre da una sua lettera a noi amici, del 16 settembre 1941, sui ritorni dal Friuli: “Ma anche Bologna, dove ho affondato radici e ricordi da molti anni, e ho antiche consuetudini e cose che si ripetono secondo un uso ormai divenuto caro e fonte di nostalgia, mi è una meta molto dolorosa: questi ritorni, ormai uguali da molti anni, nei giorni non ancora estinti dell'estate, nel dolcemente squallido sole di settembre, sono per me una vera pena”. A Bologna c'erano luoghi frequentati in comune e che Andrea ha scolpito in piena luce o in penombra: la libreria dell'editore Cappelli dove è oggi la profumeria Sephora e dove nelle ricerche dei libri ci aiutava la grande amicizia col capocommesso Otello Masetti e il commesso Righi, e la libreria Nanni di libri usati sotto i Portici della Morte laterali al Pavaglione “meraviglioso luogo della mia vita, forse il più bel posto di tutti” e che è ancora come allora col colonnato, gli scaffali esterni ribaltabili, la pavimentazione lucida.

E vi si aggiunse un terzo quando decidemmo di pubblicare nel 1942 i nostri quattro libretti di liriche: le Poesie a Casarsa di Pasolini, le Poesie di Roversi, Sopra una perduta estate di Leonetti e Canto di memorie di Serra, come prima pietra culturale di “Eredi”. Dovevamo trovare un editore e fu Otello a indirizzarci. Ci portò nella libreria antiquaria Landi in piazza San Domenico 5, che Paolella ha ritratto nella solennità silenziosa degli antichi palazzi. Mario Landi era un ometto mitissimo che si accendeva di furore quando parlava dei fascisti e vendeva libri antichi e moderni. Ricordo che un giorno assistemmo ad una scena che ci colpì: un giovane ricercatore americano (gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra) acquistò tutte le opere del Quattrocento e sul Quattrocento, e rimanemmo esterrefatti.

Ed esterrefatti e felici lo fummo quando Gianfranco Contini scrisse a Pier Paolo che avrebbe recensito le poesie friulane e Pasolini ballò e saltò sotto i portici.

Cessata l'esperienza di “Eredi” e accantonata l'uscita della rivista a dopo la guerra, nell'orizzonte pasoliniano sorse la nuovissima esperienza del “Setaccio” che Mario Ricci ha mirabilmente presentata nel suo libro pubblicato da Cappelli. Era la rivista propagandistica della GIL, la dirigeva, responsabile del fascio, Giovanni Falzone. Come ho già detto, il “Setaccio” fu occupato con un abilissimo colpo di mano da Italo Cinti, pittore futurista e di sentimenti antifascisti, che ne fece un elemento di rottura culturale assegnando a Pasolini la guida di giovanissime intelligenze da proiettare nel futuro ciascuna in settori diversi (cinema e teatro, arte e narrativa, estetica e filosofia, poesia a traduzioni). L'apporto di Pasolini, poeta e pittore, critico letterario e artistico, e la cui presenza ha detto Ricci fu “di alta risonanza intellettuale”, divenne estremamente prezioso e fondamentale negli articoli che ne maturarono l'anelito verso l'intelligenza come libertà. Scrisse che i giovani dovevano porsi l'educazione come più alto compito per le future generazioni, che la posizione dell'intellettuale doveva scindersi da quella del politico propagandista, e addirittura affermò rischiosamente, perché scalfiva il ducismo di Mussolini, “manca l'eroe che come faro ci guidi costruendo gli eventi: questi saranno piuttosto frutto o premio della fratellanza o amore civile”. La rivista (alla quale collaborai con poesie e traduzioni perché ero sotto le armi) durò dal novembre 1942 al maggio 1943. Roversi e Leonetti non entrarono, e sarebbero poi stati con Pasolini, Scalia, Fortini e Romanò, gli artefici a Bologna di “Officina”.

C'è però un'altra tematica legata a Bologna: il teatro, che Pasolini definì “idolo del nostro pensiero”. Che ebbe una serata campale di gloria quando, all'inizio di gennaio 1941, a Bologna venne rappresentata La piccola città di Thornton Wilder con Elsa Merini nella parte di Emily e Renato Cialente nella parte di George, e andammo numerosi in un palco da cui, e a cominciare fu Pier Paolo, sputammo sulle zucche dei parrucconi scandalizzati per l'insolita scenografia del regista Fulchignoni e ululanti in platea. Wilder (che morirà come Pasolini nel 1975) era una scoperta di Pier Paolo, lettore con gli amici della rivista “Il Dramma” che riportava testi dell'autore irlandese, già nel 1940, e Roversi ricorda, e lo riporta Stefano Casi autore nel 1990 di un libro su Pasolini e la sua idea di teatro, che Pier Paolo radunava a casa gli amici, a cominciare da Carlo Manzoni il più teatrofilo della compagnia e che salivano di volta in volta “su una panca o su una sedia o contro un muro, in fondo a un breve corridoio” per recitare. Pier Paolo, disse Fabio Mauri, “era un mimo dotato” e io, negatissimo anche come guitto, fui forzato spettatore di tante recite in cui Pasolini si paludava con tendaggi, e ricordo come cavallo di battaglia Il furfantello dell'ovest dell'irlandese Synge (e posso supporre che l'essersi Pier Paolo cimentato come ho ricordato in una gara di 1500 metri sia un'eco delle corse podistiche vinte dal furfantello Christy).

Roversi nel 1942 fu chiamato a collaborare al ferrarese “Corriere Padano” come vice per le cronache teatrali bolognesi. E lo dico soprattutto perché a mio parere ha scritto su Pasolini a Bologna le pagine più illuminanti e acute, che ritrovo negli Atti (curati da Davide Ferretti e Gianni Scalia) del convegno bolognese in cui rividi dopo tanti anni Leonetti, Fabio Mauri, la Bemporad e Scalia nella felicità di un mite dicembre 1995. Roversi non partecipò al convegno ma negli Atti c'è, con l'indovinato pasoliniano titolo di Pasolini e l'aria barbaramente azzurra di Bologna, un intervento che cito nella sua parte ultima. Scrisse Roberto Roversi: “La città gli è rimasta dentro gli occhi, proprio per quel fascino luminoso, discreto, profondo, che ha sempre sconvolto i più attenti pazienti visitatori nel corso dei secoli”; e poiché nel marzo 1969 Pasolini aveva scritto che Bologna “ha di così bello l'inverno col sole e la neve, l'aria barbaramente azzurra sul cotto”, Roversi puntualizzò che il cotto è “la pietra rossa che il tempo ha impolverato”, e la città “è polpa di colori ferrei o tramutanti ed è già protagonista, eventuale protagonista, di uno dei suoi film”; concludendo con un pittorico volo sui secoli: “è da sperare che la città del medio evo, cupo nelle sue penombre profonde, del Quattrocento colorato e sferzante, del Seicento inondato dal fiume di una pittura senza fine, non lasci appassire la sua luce neanche negli occhi di Pasolini”, che “è stato, non per un giorno, anche bolognese”.

Che cosa rappresentasse Bologna per Pier Paolo si può trovare anche in una lettera a me scritta il 16 dicembre 1952: “Più passa il tempo, più si deposita nel fondo torbido, chiara e felice, la vita bolognese, e ho forti nostalgie. Parlare di tutto questo è ormai impossibile, perché c'è tutto un discorso da ricominciare, c'è la storia di quasi un decennio da raccontare: bisognerebbe scrivere volumi”.

Per Pasolini, Bologna fu la città dove conobbe il Longhi delle straordinarie lezioni su Masolino e Masaccio; dei suoi professori di liceo; di Arcangeli; di giovani intelletti da lui spronati e lanciati; di Masetti e di Landi; anche del fiume Reno dove passò lunghi meriggi della sua vita e che Andrea ha colto a Casalecchio blando e vegliato da rive boscose proiettate sulle acque o terrose e irte di cespugli; anche del torrente Savena per cui Ricci ricordò le “estive accademie” lungo il suo corso. Anche, aggiungerei, di quella lezione su Tacito del 1940 nella quale Gino Funaioli, grande filologo e genero del grandissimo filologo Wilamowitz, che era genero dello storico e premio Nobel per la letteratura Mommsen, in un'aula gremitissima parlò per un'ora sul significato della libertà, lasciandoci sconvolti e coinvolti.

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La stazione di Casarsa, simbolo delle partenze pasoliniane per Bologna e degli arrivi da Bologna, è ritratta da Andrea nell’atmosfera di opaco splendore che apparve a Pier Paolo quando accompagnò il fratello che andava ad unirsi ai partigiani. Casarsa, 44 metri sul livello del mare, è, dentro la campagna assolata, “la prima del mondo appena creato”, al centro di una croce geografica che ha in alto Valvasone e in basso San Vito e ai lati le braccia di Pordenone e Codroipo, e oltre il ponte della Delizia sente il respiro delle acque del Tagliamento frantumate da isolotti sabbiosi, arruffato di sabbie come lo vide Pier Paolo nel 1943. A Casarsa c’è ancora la casa dei Colusssi, la famiglia della madre di Pier Paolo e della sorella di lei madre di Nico: Paolella la ritrae in un notturno enigma di curve e segnali, e vi passavano gli spettacoli delle solenni processioni di una fede contadina.

Aveva il campo di calcio, oasi di luce dove Pasolini giocava coi giovani amici e da dove, dopo una partita domenicale, egli corse in un rito di disperata vitalità nell’antico cimitero dietro la ferrovia ora invaso dalle sterpaglie e dal frascume in un caotico abbraccio come ci mostra Paolella. Nel nuovo, Pasolini ci andrà nel 1944 per la sepoltura della nonna e due anni dopo pubblicherà uno dei libri meno conosciuti

ma che ritengo fra i suoi più intensamente strazianti e tragicamente suggestivi. Nella consapevolezza dell’evento che oscura l’esistenza, Pier Paolo scandisce: “nel silenzio/ che nei petti dei vivi/ ansima come i campi notturni,/ tu scendi;/ e solo la bara/ nell’urtare la terra/ rompe la pace dei morti”; e la nonna ammonisce e chiede: “io sono morta/ e voi piangete intorno a me. / Ma il vostro pianto è peccato./ Lasciatemi sola/ e andate a cantare nell’orto./ Andate a cantare nel focolare/ che brilla beato,/ anche privo di questa povera/ morta”; e in una purezza classica di versi il nipote implora “O dolce sonno/ ingannala ancora tu,/ un poco./ Consuma queste ultime ore/ e, inavvertito,/ falle valicare la soglia”. Pier Paolo, che era anche pittore e sulle copertine e all’interno del “Setaccio” erano comparsi suggestivi disegni, ha ritratto il “sonno” deponendovi la memoria del viso dolcemente spento della “nonnuccia”, e Andrea ha, nei fiori e nelle erbe che ornano la semplice tomba di Giulia Colussi, proposto un primo piano di luci e di ombre. L’itinerario della morte è uno dei motivi della vita e delle opere di Pier Paolo, e percorre le friulane Poesie a Casarsa accompagnate dal suono delle campane nel “timp di mè donzèl” (tempo di me adolescente ) dove la disperazione e la speranza trovano l’espressione poetica più alta della lirica invocazione alla stella di Altair: “Altair, stele dal dûl/ quant che mi levi trist/ jo ti serci tal nûl/ e tu/ tu mi asistis”.  Dûl (pietà) e nûl (nuvole), sono i brevissimi richiami all’infinità che ci sovrasta.

La realtà e il dolore avvolgono le figure della madre Susanna  (nata a Casarsa nel 1891 e morta a Udine nel 1981) e del fratello Guido. Silvana Mauri definì Susanna “figura fissa e simbolica, cristallizzata nell’infanzia” e Pier Paolo chiedeva “ Madre, chi eri /quando eri giovane?” e la raffigurava in friulano “mari-fruta”, madre fanciulla, vedendola come una giovinetta, in un legame visionario che verrà sublimato nella Madonna del Vangelo secondo Matteo e nell’affermazione “io sono poeta per lei”. Susanna si impietrì alla morte di Guido, Pier Paolo ne osservò “il doloroso sguardo” e ne ascoltò “la voce stanca”. La ricordo a Bologna, piccola, carina, molto truccata: Nico Naldini ricorda che il belletto del viso non era perdonato dai puritani casarsesi. Ho ritrovato una  cartolina postale del 3 febbraio 1943, inviatami alla scuola allievi ufficiali di Casagiove di Caserta, in cui mi raccomandava di non dimenticare la poesia e mi diceva che Guido aveva trovato di dare lezioni di matematica a due bambine di terza media. Guido Pasolini era l’opposto di Pier Paolo: vitalista, esuberante, temerario, votato all’azione, diplomato al liceo scientifico, amante della caccia, del pattinaggio,  e dei lavori in legno; seppi della sua morte in una lunga lettera di Pier Paolo del 21 agosto 1945 e il 18 settembre lo commemorai su “Giustizia e Libertà”, il giornale bolognese del Partito d’Azione che dirigevo con Sergio Telmon, che era stato fra i collaboratori del “Setaccio” e uno dei dirigenti del comitato di liberazione.

Gli amici bolognesi di “Eredi” conobbero Casarsa dalle lettere scambiate con Pasolini e dalle poesie inserite. Conobbero creature incredibili di una dimensione sconosciuta come “il mare delle oche” guidate da Guido e per le quali il cugino Nico tagliava l’erba; conobbero l’esistenza degli amici casarsesi: Pieruti, Zùan, Bepi “alto sui bastoni delle ossa, magro al timone del carro” e “mano che stringe i bovi”, e il calciatore Maulito; conobbero il fuoco di voci e grida della gente di una cittadina che acquistava forme leggendarie e magiche della realtà quotidiana. L’immagine di Casarsa si era trasformata dalla rozzezza rustica e contadina e da una vita stecchita come Pier Paolo la definiva a Farolfi nel 1940 in un accogliente nido pascoliano che si colorava poeticamente e diveniva luogo d’incontri culturali e di infatuazioni adolescenziali. Le liriche italiane, che Pasolini inviava a Bologna nelle lettere collettive indirizzate a me come destinatario e a Roversi e Leonetti come comuni riceventi dei messaggi di “Eredi” nell’estate del 1941, avrebbero dovuto far parte di una pubblicazione intitolata I confini; e i confini erano le proiezioni dei miti del giorno e della notte, dell’infanzia e della fanciullezza, della solitudine e del destino, e sono fondamentali per la formazione di Pasolini e per fissare le prime voci di un’alta sua poetica. Due mi appaiono ancora oggi tra le più significative e arcane: Cane di notte e Risveglio. La prima prende avvio da un appunto dello Zibaldone leopardiano del 1817 (“Cane di  notte dal casolare, al passare del viandante”) con l’aggiunta della chiusa del Dì di festa e del Cane notturno in Odi e inni del Pascoli; ma Pasolini imposta l’allucinante rapporto fra il cane e il poeta in un desolato inno alla notte, in uno scavo di veglia e insonnia, nella presenza incombente del fato famigliare e individuale. Il cane è lacerato e laceratore, tra finito e infinito.

La seconda è ancora più alta: il manzoniano inizio che pare sinteticamente evocare il viaggio del diacono Martino nell’Adelchi si cala nell’immersione cosmica e nella consapevolezza della propria sorte, come punto di partenza da individuare in uno dei Primi Poemetti pascoliani, Nella notte.

Ma l’intrico allusivo delle voci e delle suggestioni a indicare la vita come mistero e fatica che è in Pascoli si scompone in Pasolini e culmina dentro il realismo del pasto dell’animale vorace e la metafisica dello sconvolgimento e dell’inalterabilità. La poesia è dell’agosto e la propongo ai fruitori di questa pubblicazione:

“Mi ridestai; con muti passi/ valicai la valle che ormai/ mi separava dalla sorta mattina./ Stetti sul davanzale ed una/ delle scialbe cose fui che la triste/ luce additava. Tremare in fondo/ ai muri la sciagura vidi, e la ruina/ di gialle pietre sembrava ferma/ sulla vita degli uomini. Nell’anatra/ che fosche spoglie della notturna/ pioggia tranguigiava, vidi/ la minaccia impassibile degli anni”.

L’uscita dei quattro libri di poesie concluse la stagione di “Eredi” e il 1942 fu per Pasolini l’anno in cui entrò “in un’adulta fanciullezza” e l’anno del messaggio nuovo agli amici lontani che le Poesie a Casarsa in friulano rivelarono: ossia, come ha detto Giovanna Bemporad, “la purezza lirica assoluta”. Il libro rappresentava un internazionale atto di trasgressione che si inseriva nella multiforme cultura europea delle lingue romanze testimoniata dall’interessamento di Gianfranco Contini, il grande filologo trentenne che insegnava a Friburgo e in Svizzera e nel 1943 recensì il volumetto del giovanissimo Pier Paolo che già era stato affascinato dalle lezioni di Roberto Longhi. Vorrei, a legittimare il felice intuito di Pasolini, aggiungere che l’alto magistero di Longhi e Contini segnò l’avvio e il percorso del grande studioso della letteratura Ezio Raimondi, come lui stesso ha detto e ampiamente documentato a Paolo Di Stefano in un’intervista apparsa sul “Corriere della Sera” del 10 gennaio 2010. Contini comprese il mondo poetico di “un ragazzo” che aveva introdotto uno “scandalo” nella letteratura dialettale, e scrutando “la carne” delle Poesie a Casarsa, ne vide l’affrancamento dai ritmi canonici delle abitudini paesane nell’ “ascesi dell’uomo sul proprio corpo che fa l’equilibrio del libretto”. Contini aveva annunciato la recensione nel 1942 e Pasolini, oltre che saltare e  ballare sotto i portici bolognesi, potè dire “ sono molto ambizioso” e “amo veramente la gloria”. Lo confessò in una lunga dedica a un professore trovata nel 1999 da Stefania Alluigi in una copia delle Poesie a Casarsa nella raccolta privata della Libreria Martincigh di Udine: quasi un segno del destino fra le due librerie antiquarie Landi e Martincigh e con la pubblicazione che ne fece poi la scopritrice del testo sconsociuto.

A questo punto debbo togliermi tanto di cappello al cugino Nico Naldini, figlio di Enrichetta sorella di Susanna, che ha dedicato a Pier Paolo una serie di opere (cito Nei campi del Friuli, Pasolini una vita, la raccolta delle Lettere, e la cura degli Stroligut, Mio cugino Pasolini, Non ci si difende dai ricordi, nonchè Un paese di temporali e di primule) e che ne fanno il biografo per eccellenza e il vero erede di Pier Paolo, e a lui ho lasciato le lettere dell’estate 1941 che, indirizzate a me, erano contemporanemente dirette anche a Roversi e a Leonetti, patrimonio collettivo dunque. Spetterebbe a Naldini continuare il discorso e non a me, tuttavia il mio contributo, seppure ristretto, sarà il piú possibile personale e anche legato alle fotografie dei luoghi frutto delle ricerche di Andrea Paolella. Possiedo, con dediche, tutti i libri delle poesie giovanili di Pier Paolo fino al 1949, gli Atti dei Convegni  di Casarsa del 1985 e di Reggio Emilia e di Bologna del 1995, i numeri originali del “Setaccio”, tutti gli “Stroligut” , le lettere inviate a me singolarmente dal 1942 al 1953, ecc. ecc. Negli eccetera ci sono anche i ricordi, via non lasciamoci prendere dalle malinconie. Dovrò prendere in mano qualche filo perchè il labirinto pasoliniano è piú lungo di quello minoico e piú lungo dei 172 chilometri del Tagliamento coi suoi meandri e i suoi rami, le grandi acque e le secche dell’ “aga” del Friuli.

Nella vita e nell’opera di Pasolini il Tagliamento (Tiliment in friulano) entra con prepotenza “orgoglioso e terribile”, col suo “smisurato greto”, con la sua “bianchezza allucinante”, col suo “solco singolare di ghiaia” ed è situato tra il “mare e la montagna”, leopardianamente. Ed è legato anche al pecoraio Bruno, “giovane indigeno” (“estroso e malvagio” lo definisce Naldini, “amante” lo dichiara esplicitamente Schwartz) oggetto dei suoi desideri fisici e “primo esperimento di amore”, come appare in una lettera del 24 giugno 1943 che è una “smaltata pagina di prosa”, così la definsice Enzo Siciliano nella Vita di Pasolini, ed è, nei particolari e nelle soluzioni sceniche, l’incrocio di reale e irreale, di impudicizia e sublimazione, di erompenti simbologie: i  soldati “stranieri” (tedeschi) che osservano meravigliati Pier Paolo e Bruno che si tuffano in acque gelide e misteriose, il temporale improvviso e “livido come un pene eretto”, il Tagliamento che scompare nella nebbia, la fuga degli zingari e dentro un carrozzone celeste un ragazzo che suona a distesa con una tromba.

È anche il tempo in cui l’esistenza di Pasolini è segnata e incisa dolorosamente dalla guerra: la prigionia del padre in Kenia, la morte in Russia del suo piú caro amico Ermes Parini (detto Parìa) e poi imminente la morte a Porzùs del fratello Guido (che da partigiano, aveva assunto emblematicamente il nome di Ermes). La guerra gli fa evocare l’invasione turca del Friuli nel 1499 e scrivere l’atto unico I Turcs tal Friul (I Turchi nel Friuli), drammaticamente e tragicamente straordinario (e non commedia come lo dice Schwartz), datato 1944, quasi premonizione dell’uccisione del fratello.

Si tratta di un’azione teatrale in cui si ravvisa una sorta di epopea della famiglia Colussi espressa nei personaggi dei fratelli Pauli e Meni, della madre Lussìa, del padre Zuàn; i dialoghi, concitati, si svolgono sotto un portico del villaggio (Casarsa), l’atmosfera è cupamente infausta e gravida di lutti incombenti; Pauli soggiace al destino ma Meni organizza la resistenza; alla fine nel rosso tramonto si ode in lontanaza il canto dei Turchi mentre i giovani del villaggio portano il corpo senza vita di Meni caduto per la libertà. Meni può simboleggiare la proiezione e predestinazione del sacrificio di Guido; Pauli (Pier Paolo) dirà che non è giusto che tutto debba bruciare e sparire in un povero, paese cristiano.

L’infuriare della guerra determinò le famiglie dei braccianti a salvaguardare i figli facendoli educare nella scuoletta che Pasolini creò in un casolare affittato a Versuta, a 2 km da Casarsa, dove gli insegnanti furono Pasolini (storia e materie letterarie), Cesare Bortotto (scienze), Riccardo Castellani (matematica), Giovanna Bemporad (greco e inglese) mentre la madre Susanna, maestra elementare, si prendeva cura dei più piccoli.

Il destino di Pasolini, ha scritto Naldini, è un “labirinto” che comincia a Versuta ed è l’esplorazione di un mondo contadino che irriga la sua poesia e di una campagna in cui vi sono espresse le “fonti emotive”, la scoperta della sua ansia e vocazione pedagogica (dirà Andrea Zanzotto che in lui c’è in primo luogo il maestro), scopre il cinema e, in “modo definitivo, la propria identità omosessuale” che fu inizialmente platonica e poi voracemente ossessiva. Qui fondò l’Academiuta e si aprì al mondo romanzo della Ladinia.

Del suo ascendente pedagogico è testimonianza il convegno con mostra di Reggio Emilia nel marzo del 1995 a cura del preside Roberto Villa e del docente di filosofia e storia Lorenzo Capitani, e gli Atti pubblicati dall’editore Aliberti (che si era laureato con una tesi su Pasolini discussa col professor Ezio Raimondi) recano i fondamentali contributi di Marco Antonio Bazzocchi (Signor Maestro, maestro signore), di Roberto Villa (Pier Paolo Pasolini, Educazione e Democrazia), di Sergio Chiariotto (Un insegnante nei campi del Friuli),  di Luciano Serra (L’apprendistato civile di Pasolini 1942-1943), di Lorenzo Capitani (Poesia in forma di scuola), di Gianni Scalia (La mania della pedagogia), di Enzo Golino (Pasolini, pedagogo di massa), di Andrea Zanzotto (La passione didattica di un “maestro mirabile”), di Marco Antonio Bazzocchi (Regressione, poesia e pedagogia in Pasolini), di Flavia Rossi (Pasolini o della pedagogia augurale), di Enzo Lavagnini (Pasolini: “un uomo fioriva”. Educazione e strati popolari), di Gianni Borgna (Pasolini tra la “meglio gioventù”e la “nuova gioventù”). Questo ghiotto piatto di saggi fondamentali che indico agli studiosi pasoliniani più attenti ebbe due titoli, negli atti sempre pubblicati da Aliberti: prima Pier Paolo Pasolini: educazione e democrazia e poi Pasolini e la scuola. Il maestro e la meglio gioventù.

Bisogna tornare al Friuli, dove l’esperiemnto di Versuta fu anche lùdico, e il merito fu gran parte della violinista slava Pina Kalz, profuga a Casarsa, che diresse cori di fanciulli musicati dalla Bemporad e suonò “spartiti di musica classica che incantavano nei silenzi piovosi di Versuta”, come scrisse Naldini. Si veda anche, nello Stroligut dell’agosto 1944 Memoria di uno Spetaculut di Pasolini. Dal canto suo, Pier Paolo disse di avere eseguito Beethoven al tam tam dei vecchi negri, da lui nutrito nel suo “impenitente cuore di mozzo”, e organizzava recite di cui era autore e scenografo coadiuvato dal pittore Federico De Rocco. Questi Spetaculus erano il preludio dell’Academiuta de Lenga Furlana che ebbe come portavoce la rivista, nata nel 1944 e stampata a San Vito, chiamata inizialmente “Stroligut di cà de l’aga”, ossia lunarietto pubblicato sulla riva destra del Tagliamento, ma che era ben più di un almanacco, e poi semplicemente “Stroligut” e infine, in formato più ridotto ma con maggiori ambizioni, “Quaderno Romanzo”. In questa pubblicazione fecero le ossa giovani e giovanissimi, guidati da Pasolini che aveva al suo fianco Bortotto e Castellani e il medico urologo e poeta Franco De Gironcoli, che, nato a Gorizia nel 1892 e morto a Vienna nel 1979, è una delle voci più intense della letteratura friulana nel suo triste specchiarsi dentro il tempo e i sogni. Da “Eredi” e dal “Setaccio” la vocazione di Pier Paolo (che si firmava anche Pieri Pauli, Pieri Fumul (che in friulano significa grigio) e San Pieri era quindi letteraria, educativa, promotrice di sodalizi e cenacoli per i cui aderenti Naldini coniò le espressioni di “iniziati” e “catecumeni”.

Nel 1947, quando insegnava alla scuola media di Valvasone, Pasolini pubblicò nel “Quaderno” l’invito all’autonomia del Friuli e nove poesie di nove poeti catalani. Il suo non era secessionismo ma adesione culturale sia all’Italia i cui confini sono segnati per lui dal Friuli sia al federalismo europeo dove avrebbero avuto voce la Catalogna, la Provenza, i Grigioni, la Romania entro una comune storia e tradizione romanza, per cui “Favelà furlan a voul disi favelà Latin”.

Non mi soffermerò su un esame dei cinque fascicoli della rivista, del resto ampiamente studiati da Nico Naldini che provvidenzialmente curò per Neri e Pozza nel 1994 la ristampa integrale, così come nel 1977 per Cappelli aveva fatto Mario Ricci presentando del “Setaccio” tutti i testi di Pasolini, e gran parte di quelli degli altri che vi scrissero. Qui intendo soffermarmi su due giovani collaboratori egli “Stroligut” e del “Quaderno”: Tonuti Spagnol e Novella Aurora Cantarutti. Tonuti Spagnol, per cui Pier Paolo ebbe un’infatuazione e adorazione adolescenziale, aveva quattordici anni quando sullo “Stroligut” del 1946 apparve una sua lunga divertente prosa narrativa nel friulano di Casarsa in cui racconta come, ragazzino con nessuna voglia di lavorare, spera nella pioggia per non zappare e costretto ad andarci dice di essersi dimenticato l’attrezzo e viene rimandato a prenderlo; il manico si rompe, viene l’ora di rientrare e, mentre gli altri sono tutti contenti di aver fatto un buon lavoro, Tonuti dice di essere più contento di loro perché non era stanco e non aveva fatto nulla. Il titolo di questo brillante esordio culturale era Jo i soi un contadinùt mus, io sono un contadinello somaro, che è una sorta di inno alla “cagnata”, la fiacchezza, e vi spuntano immagini felicissime come quelle di lui che sul carretto  stava “dut ingrisignit” (è il participio del verbo ingrisignisi ossia rabbrividire) e dell’unico rumore che sentiva ed erano i tedeschi che “comedavin il Punt” (aggiustavano il ponte). Il tema del ragazzetto costretto ad andare a lavorare “quant qe inciamò li stelis a luzèvin in tal seil, cuant qe i giaj a scuminsiavia dismovi li ciasis indurmididis” (quando ancora le stelle brillavano in cielo, quando i galli cominciavano a svegliare le case addormentate) prosegue nel secondo racconto Sul travas, il travaso del vino, e Tonuti viene fatto bere finché lo buttano nella brenta; e ha un seguito anche nella poesia Ricuart, ricordo dell’infanzia dove si dice che suo padre faceva cesti “e jo invensi no”, e invece no. Ma nella lirica si avverte il contrasto fra la gioia di giocare in quei felici giorni e la consapevolezza che sarebbero divenuti miraggi freddi e c’è il monito della madre “ti provaràs cui piès fangas/ tal grin de la vita”, proverai coi piedi infangati nel grembo della vita. Il titolo delle poesie di Tonuti Spagnol, pubblicate nel 1985 con prefazione di Amedeo Giacomini, sarà significamente Timp piardùt. Da incosciente “somarel” a pensoso evocatore del tempo perduto.

Invitata da Pier Paolo, la studentessa Novella Aurora Cantarutti – nata a Spilimbergo nel 1920 e morta a Udine nel 2009 – inviò la poesia Not che riporto: “Al bàa un cian/ e un cian a’i rispunt/ un pec’ in na,/ e pi lontàn un âtri/ al bàa a la luna./ Iè, da la su a scolta/ riduciant./ Encia jo i clami/ planc qualchidun, /ferma te l’antîl/ dal balcòn viert./ I clami, ma nissûn/ a mi rispùnt”. É scritta nella parlata di Novaròn e mi ricorda (scusate se mi cito) la prima mia lirica che Pier Paolo accettò come inizio del mio percorso poetico di “Eredi” e diceva: “Strisciano i cani, muti, / al desiderio raggiunto/ e tremano./ Uno solo, lontano,/ disperde al soffio dei venti/ l’ansia inappagata”, e uscì nel mio libretto del 1942. Nelle due poesie è simboleggiata la solitudine che le immagini dei cani sparsi o in gruppo rivolti alla luna rendono più acuta. La Cantarutti nel gennaio 1945 scrisse una poesia su suo fratello prigioniero, che pubblicò nel 1946 in un almanacco friulano, in versi che calano in colonna a filo sottile e sinuoso, versi accorati alla sua casa vuota da dove sente i morsi della fame di lui e il pane diventa per lei piú amaro del veleno e duro come sasso, tormentoso come un castigo di Dio. Questa dolente lirica di 71 versi e la lirica alla notte appaiono nella raccolta Puisiis pubblicata a Treviso nel 1952.

Pier Paolo Pasolini nello “Stroligut” del 1945 inserì il testamento spirituale del fratello sul suo martirio per la spirituale grandezza della Patria, “a cui io vi supplico di credere” e pubblicò tre dei Còrus in muart di Guido: angosciose invocazioni (dove mond, vita, distin, pasat, libertat fanno da sfondo) e dolorosi colloqui e paragoni tra pronomi personali e verbi brevissimi in un confronto di due sorti diverse (“Eco, qisto mond/ par te a no ‘l è/ E tu par te i no ti sos,/ a par nu sì”). Guido, lo diciamo qui, era nato a Belluno il 4 ottobre 1925 ed è morto a Porzùs il 7 febbraio 1945.

Guido poteva salvarsi ma tornò a morire coi compagni partigiani del Partito d’Azione uccisi dai comunisti che volevano annettere il Friuli alla Jugoslavia. Pier Paolo in uno dei cori scrive “ i ti sos tornat lassù/ ciaminant”, sei tornato lassù camminando e in una lettera dirà “camminare, camminare, dentro il Friuli vuoto e infinito”. Il Friuli come grande pianura fra Tagliamento e Livenza è sentito come luogo della sua vita e confine dell’Italia e c’è odore di terra romanza, di conoscenza raggiunta nella scelta del friulano. Giustamente Lorenzo Capitani nel convegno reggiano ha richiamato la lettera del 3 novembre 1945 in cui Pasolini disse a Franco De Gironcoli che scrivere è il mezzo per fissare “una melodia infinita, o il momento poetico in cui si sente l’infinito nel soggetto”. Fra i paesi da lui visti e amati, ce n’è uno che particolarmente predilesse: Valvasone. Vi insegnò nel 1947 alla scuola media, scrisse poesiole per i suoi alunni che denotano la sua vocazione alla fantasia nel suo spaziare didattico, e nel quotidiano “Il Mattino del Popolo” del 16 febbraio 1947  pubblicò un lungo articolo che Naldini ha inserito in Un paese di temporali e di primule del 1993 e che è uno straordinario capolavoro di fantasia, geografia, antropologia, da leggere e rileggere. Pier Paolo conobbe Valvasone a 14 anni nel 1936 e tornandovi la identificò come “ideale città del silenzio”.

Andrea Paolella, è ora che torniamo a lui, ha colto di Valvasone tre immagini emblematiche perchè suggestioni opposte: la scuola media, bianca e intatta nello stile pur presentando oggi crepe nell’intonaco, l’ancora intatto meraviglioso pozzo che pare danzare aereo nei ferri battuti che lo sovrastano, il castello abbandonato (sconsolato lo aveva defintio Pasolini) visto internamente ormai invaso cupamente dalle erbacce. L’obiettivo di Andrea si è spostato e posato in una serie di paesaggi: così quello di Pordenone restituendoci l’atmosfera romantica del torrente Noncello (Pasolini lo chiama corrente) che scorre fra due rive dove gli alberi si protendono selvosi sulle acque tranquille; così sulla fontana cara al Nievo di Vinchiaredo che appare nella sua sacralità votiva; così sul Pelmo che si affaccia opaco oltre i boschi e le case con la scuola elementare; così indugiando e scattando due fotografie esemplari, sulla Forcella Grande che Pasolini aveva salito nel maggio 1942 discendendone correndo per avervi avvertito le minacce di una terrificante solitudine. Andrea ha voluto salirvi con una guida, faticando ma regalandosi e regalandoci le  immagini di imponenti rocce striate e l’impeto prepotente di un ghiaione in pendio che sembra un bianco grido della natura.

Di Caorle, dove Pasolini avvertì la disperazione dell’adolescenza e dove sentì che gli sfuggivano i fili della vita, ma dove osservò anche la folla contadina, in sottoveste o mutande, formicolare oltre capanni e ombrelloni, Paolella ha inteso cogliere gli ombrelloni a scacchi sotto la spalletta inclinata sulla spiaggia e ha aperto l’obiettivo sulla vastità del fiume Livenza e della sua foce. Molte immagini ha dedicato a San Giovanni, ai luoghi dove nel 1948-1949 scoppiò la rivolta dei contadini contro i ricchi agrari. Ben diversa gli era apparso San Giovanni il 19 gennaio 1947 quando scrisse a Gianfranco D’Aronco di sentire suonare le campane e di aver visto dalle finestre azzurre i monti e immaginato il mare. Ed era un’eco del verso leopardiano “e quindi il mar da lungi, e quindi il monte”.

Le immagini di assoluti silenzi che Andrea presenta di San Giovanni sono quelle di oggi, immobilizzate e per così dire plasticate o congelate in una quotidianità borghese da cartoline illustrate, a bella posta in aperto stridore con quei tumulti della povera gente che si vide contro polizia e carabinieri. Da questa situazione di disagio Pasolini ebbe la spinta alla giustizia e all’adesione con gli oppressi che l’indussero a iscriversi al partito comunista e fu, ha scritto Nico Naldini, “la massima forzatura alla sua personalità” per creduto di potere, attraverso il marxismo, conoscere meglio la realtà. Tanto, si può aggiungere, da fargli scavalcare l’eccidio di Porzùs e il martirio di Guido in nome di una palingenesi sociale. Pier Paolo divene segretario della sezione di San Giovanni e andrà come delegato al Congresso della Pace di Parigi.

La ribellione mezzadrile e bracciantile era partita da San Vito dove i più ricchi proprietari di terre erano i Pitotti. Paolella ci ha dato un pezzo di antologica bravura fotografica, una stralunata visione della loro villa: dall’edera che copre i muri in primo piano a sinistra al denso fogliame che ricopre la facciata della casa sullo sfondo da cui emergono squarci bianchi e uno al centro, più alto degli altri, guizza come un allucinante e bizzarro fantasma o un esagitato spirito di tregenda.

Ed ecco nel 1949, l’apparizione delle poesie friulane di Dov’è la mia patria nelle edizioni dell’Academiuta apre nuovi capitoli linguistici e si fonde con l’amicizia del pittore Giuseppe Zigaina di Cervignano che aveva dipinto paesaggi e crocifissioni ispirate a Rouault, e col quale Pasolini girava in bicicletta per compiere ricerche linguistiche nei borghi friulani. Pier Paolo rievocherà, dedicandogli per una sua mostra il poemetto di sessantaquattro terzine di “I campi del Friuli” pubblicato nel secondo numero della rivista “Officina” del luglio 1955, un incontro serale a Ruda in occasione di una festa contadina ricambiando Zigaina per avergli illustrato con tredici disegni Dov’è la mia patria. Nei disegni apparivano con volti ovali senza lineamenti i simboli del lavoro e del riposo dai tratti graffianti e carichi di tensioni umane vibranti e incupite in grovigli di uomini e biciclette in una metafisica popolana che coinvolgeva operai e mietitori, pescatori e scioperanti. Negli anni ’40 lo scrittore reggiano Silvio D’Arzo di cui PPP riconobbe la grandezza in una lettera del 1957, citò in racconti e romanzi le biciclette «da corsa e da macellai» «strane e impossibili da fornai» «di operai col manubrio arrugginito e un freno solo e impossibile». Un anno prima, sul “Mattino del popolo” Pasolini aveva pubblicato un articolo dal titolo Simili ad arcangeli (che sarà variato poi e si troverà in appendice ai Ragazzi di vita) nel quale erompe l’immagine della pioggia di “operai in bicicletta” lungo la statale Venezia – Trieste, e che Naldini ha riproposto nel testo primitivo in Un paese ti temporali e di primule nella cui copertina a colori è riprodotto il dipinto splendido di Zigaina dal titolo Biciclette e falci del 1953, una delle opere più suggestive del pittore tornato al paeseaggio di un amatissimo Friuli.

Nel libro di poesie del 1949, ha scritto Piera Rizzolatti negli Atti del Convegno di Casarsa del 1985, “esplode il plurilinguismo del poeta che percorre linguisticamente il Friuli occidentale, fa proprie e sperimenta le varietà friulane e venete di quest’area. A questo importante aspetto lessicale e filologico fa riscontro, e desidero metterlo in rilievo, l’aspetto sociale che traspare nel contrasto fra miseria e ricchezza, con punte di acuti accenti di libertà nell’immagine di ascolto dei “fiumi della vita dei poveri” svincolati dal prete, dal gastaldo, dal padrone e dai suoi cani, e nell’esclamazione finale rivolta alla madre: “Ahi, mari!/ Il nustri còur al sarà un soreli/ i ciamps libars a svuolaràn,/ di sera i zurjarìn cun cians di oru/ tal curtìl lusìnt di libertàt!/ Ahi, mari!” ossia: Ahi madre! Il nostro cuore sarà un sole, i campi liberi voleranno, di sera giocheremo con cani d’oro nel cortile lucente di libertà! Ahi, madre! E c’è anche Il testament Coran del giovane catturato dai tedeschi e impiccato al gelso dell’osteria con l’immagine dei suoi “vuoj vuòiti”, occhi vuoti, che ci può ricordare “les yeux cavez”, gli occhi scavati dalle gazze e dai corvi nella ballata famosa degli impiccati di François Villon. Il Testament Coran vincerà nel 1950 il secondo premio a Cattolica con gran gioia della madre.

Gli amici di “Eredi’ e del “Setaccio”, laureati quasi tutti, si erano dispersi, avviati alle loro attività professionali: di avvocati come Vecchi, Cavazza, Vighi; di insegnanti come il sottoscritto; di educatori come Ricci; di medici come Manzoni; di bibliotecari come Leonetti; di librai antiquari come Roversi; di giornalisti come Telmon e Pancaldi. Tonuti Spagnol andrà in provincia di Como a lavorare a una seggiovia e avventurosamente farà il contrabbandiere di sigarette prima di partire militare nel 1952 e alla fine fare una brillante carriera nelle assicurazioni. Pasolini, che continuerà a tenere i contatti con Contini e ad allacciarne altri con fedeli amici come Sereni e Spagnoletti – è di Scalia la distinzione fra “gli amici suoi e i suoi amici” – perde il posto di insegnante dopo lo scandalo suscitato dai fatti di Ramuscello e a Farolfi scrisse il 31 dicembre 1949 di aver subito un “tremendo scossone biografico” e il 27 gennaio gli disse di trovarsi in una situazione disperata. A Silvana Mauri il 18 gennaio aveva detto di non aver capito nulla del mondo, di voler andare in Libano, e di sentirsi “Rimbaud senza genio”. Il 27 gennaio le parlò delle sofferenze disumane della madre e le annunciò di partire con lei per Roma ad alloggiare in via Porta Pinciana 34, presso lo zio antiquario Gino Colussi, per fuggire alla “malvagità e pazzia” del padre. Andrea ha inquadrato mirabilmente la monumentalità del portone scuro dentro l’arco dai grossi conci aggettanti e la decorazione della fascia esterna coi fregi intrecciati. A Silvana, che lo amava e alla quale aveva già detto di averla amata “oltre un certo limite” consapevole di non poterla sposare perchè omosessuale, e che stava per unirsi in matrimonio col giovane scrittore Ottiero Ottieri e lavorava con lo zio editore Valentino Bompiani, ricordò il 10 febbraio che nel 1942 era “sano come un pesce e completo come un albero” e che continuava ad essere un “ragazzo spaventosamente onesto e buono”, e affermò che Roma gli pareva una nuova Casarsa, di sentirsi come San Paolo e di dover affrontare come lui lo scandalo e che la sessualità degli altri lo faceva vergognare della sua. L’11 febbraio sempre a Silvana scrisse di non rimpiangere Casarsa e di averla superata e che Roma si distendeva intorno a lui come “disegnata nel vuoto” e con un “potere consolatorio” immergendolo “nei suoi rumori”. Nel febbraio del ’50 a Nico scrisse che Roma “è divina” pur definendosi sempre in febbraio a Farolfi come “un ergastolano”.

A fine febbraio Pier Paolo così mi scrisse: “Ho ricevuto una tua incredibile lettera, incredibile perché credevo che sapessi che io sono a Roma, fuggito con mia madre da Casarsa” e angosciosamente terminava “Mia madre è a servizio e io non riesco a trovare lavoro, mi sento solo, incapace, in condizioni tremende. Per adesso mi mantiene mio zio”. Questa lettera, che sarà presentata da Roversi nello spettacolo I campi del Friuli del 1978, giunse come fulmine a ciel sereno, pesante come macigno, e fu una fitta dolorosa. Del lavoro trovato dalla madre presso una famiglia con un bambino a Colleverde di Montecassiano Pasolini parlò a Silvana e ne era felice, mentre non lo era per sé in quanto non trovava “nemmeno una miserabile lezione privata” terminando col dire che la sua “naturale gaiezza” era “una fotografia ingiallita”. Era anche triste perché, sempre nel marzo, a Nico disse che non gli scriveva più nessuno.

A Giacinto Spagnoletti scriverà nell’estate 1952 su Roma: “è tutta vizio e sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gola di vivere, dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie”. Ed è come un annuncio dei suoi romanzi. Nel 1953 a Leonetti ricordò il periodo di Bologna “ancora turgido e vicino” e gli farà sapere che Bassani lo considerava “il migliore di Bologna” e sempre a Leonetti parlerà dell’ammirazione di Sciascia per Roversi. E sono come gli annunci dell’imminente fondazione di “Officina”.

Potevano coesistere per Pasolini sradicato dal Friuli i due modelli geografici e lessicali, colludere o collidere? Educatore nelle scuole e studioso della letteratura dialettale, la continuità didattica tra Versuta e Ciampino e il duplice messaggio della rondine caduta e salvata nel laghetto del Pacher e caduta e salvata nel Tevere potevano illuderlo? A Ciampino trovò un posto di insegnante nel dicembre del 1951, l’anno in cui frequentò Ungaretti e Gadda, Bertolucci e Caproni (anche lui scrittore povero e povero insegnante), in una media parificata dove attuò quella “mania della pedagogia” di cui scrisse a Spagnoletti in gennaio. Allora Ciampino era un borgo di poche strade sterrate e Pasolini divenne più amico che professore per i suoi allievi che portò spesso in gita, anche a Orvieto e a Napoli. Oggi la scuola si è trasformata e ha ceduto il posto a palazzi e le vie non asfaltate e vi sostano le automobili: le documenta una fotografia di Paolella in cui le luci ambigue proiettano la banalità dell’esplosione demografica.

Frequentando le periferie romane, Pasolini conobbe una realtà nuova fatta di vitalità e brutalità, di miseria ed espedienti, di selvaggia primitività: il sottoproletariato che esprimerà in Ragazzi di vita, e poi in Una vita violenta, e i personaggi sono gergalmente identificati in Ricceto, Lenzetta, Caciotta, Begalone ecc. Nei due romanzi editi da Garzanti, si può leggere l’attrazione non più del “mito dell’oro” secondo la definzione di Alberto Moravia della cultura contadina ma del mito di un’esistenza miserabile e incontaminata, inconsapevole del bene e del male e del cui gergo fece una studiata scelta stilistica.

E intanto si era sistemato in un appartamento di Via Fonteiana 86 assieme alla madre e al padre Carlo Alberto colonnello in pensione che appariva orgoglioso del figlio: figura controversa che, nato a Ravenna nel 1892, morirà alcolizzato nel 1958.

Andrea Paolella ha esplorato la Roma pasoliniana e ne ha tratto immagini di vie, chiese, piazze, ponti, mercati, cercando di leggere nella città di oggi i segni pasoliniani rimasti o spariti. È una Roma per lo più deserta “senza Pasolini” come direbbe Scalia ma in un altro significato, o notturna come sui ponti, ed è anche vista in lontanza da Primavalle dai tre alberi scuri e senza foglie che sembrano triumviri o barbari in attesa dei saccheggi. In via Portuense gli alberi si incrociano in un’angosciata inquadratura verso sera; in Via della Scala dove Lucià aspettò Marcè con la bicicletta non restituita al noleggiatore, Andrea ha messo in rilievo il selciato sconnesso, una donna vestita di chiaro che affretta il passo e un un uomo scuro in direzione opposta che si allontana; in Via della Vite ha fotografato la gente che va verso i negozi ed è l’unica foto animata dalle persone; in via dei Gordiani i palazzoni da metropoli hanno preso il posto delle case di borgata e si vede il campetto di calcio. Altri palazzoni, fitti di finestre quasi i cento occhi di Argo e in piena luce, incombono sulle bancarelle di un mercato abbuiato, in piazza San Cosimato; e in Piazza de’Renzi c’è un sostare di motorette sotto le piante che sembrano proteggerle o singolarmente messe vicino alle porte delle case; e in piazza di Campo dei Fiori la statua di Bruno fotografata di spalle sembra arringare le abitazioni; e altri casermoni fanno da gigantesco scenario al marciapiede e al muretto del cavalcavia della stazione Tiburtina; e la casa di Pasolini a Ponte Mammolo, prima periferia di ragazzi di vita. Ma sono le immagini dei ponti ad avere attratto maggiormente Andrea Paolella, affascinato dalle visioni notturne come lo fu Pasolini negli squarci di notti romane di Alì dagli occhi azzurri. Sono queste immagini antiche e sempre nuove che l’obiettivo propone: le luci dei fanali sgranate in fila interminabile sul ponte Milvio e le luci notturne sul Ponte Cavour riflesse nelle acque in danze fosforescenti. Ma anche i ponti Mammolo con la casa dai piani zigzaganti, Garibaldi che sente il peso delle abitazioni e degli alberi dell’isola Tiberina, Sisto ritratto nel suo incombere sul fiume dove un alberello fitto di trame sta fra le acque e le pietre, Bianco con nicchie e grosse teste di leone (che non c’erano), Mazzini col lungotevere dove è in sosta il bateau-mouche per turisti, Testaccio con la veduta lontana della zona portuense col gasometro che spunta oltre la vegetazione e le trine dei giovani alberi.

Contemporanea all’uscita di Ragazzi di vita, (e ci fu sùbito accusa di pornografia con assoluzione) vide la luce la rivista bimestrale “Officina” (12 numeri dal maggio 1955 all’aprile 1958 più due di una seconda serie) con la copertina in ruvido cartoncino da imballaggio, e le riunioni redazionali si tennero spesso nella libreria antiquaria Palmaverde di Roversi a Bologna. Ha scritto Enzo Siciliano: “Francesco Leonetti fungeva da paziente e accanito tessitore di incontri; Roversi dava qualcosa di più, e molto, che non la sola ospitalità; Pasolini portava con sé la propria esperienza di organizzatore culturale in Friuli, e dal Friuli, ancora antiche idee”.

Ma ormai il mite e violento rivoluzionario Pier Paolo Pasolini, che scorgeva davanti a sé  “il di de la me muart”, il Pasolini caduto da cavallo come San Paolo, era agitato, come scrisse Scalia, dallo “scandalo” e nelle sue opere ormai in funzione di scandalo nutriva il desiderio straziante di una legittimazione per liberarsi dal complesso di colpa della diversità, dalla rabbia di sentirsi un escluso e un perseguitato da 33 processi. E reagì con gli scritti civili “corsari” e “luterani” contro l’arroganza del potere, contro il Palazzo, contro la rovina del presente, con un’intensità profetica in senso biblico, parlando male dei borghesi sui giornali borghesi. Inascoltato “praeceptor Italiae” lo definsice Scalia, ed è Scalia a citare i bellissimi versi di Una disperata vitalità: “la morte non è/ nel non poter comunicare/ ma nel non potere più essere compreso” – che è tragico inabissarsi di ciò che aveva amaramente scritto Kant: “il pericolo non è di essere contraddetti ma di non essere intesi”.

Ma non era soltanto un profetico anticipo sul futuro la sua ostilità al consumismo, i fasti incontrollati dei padroni al potere, le ideologie edonistiche ed egemonie globalizzanti, ma vi si inseriva anche la sua abiura del passato friulano.

Il filologo Vincenzo Mengaldo ha parlato di pulsione masochistica nella ricerca di cancellare la giovanile esperienza, dicendo che l’esperienza friulana venne da lui sentita come “peccato originale e non più come paradiso perduto’. E Piera Rizzolatti ha scritto negli Atti del convegno di Casarsa, che nella seconda forma (del 1974) della Meglio Gioventù Pasolini lancia un grido di orrore per l’irrimediabile sfacelo del mondo e rende l’ultimo disperato messaggio al mitico lontano Friuli”. Pier Paolo infatti dice: “Tutto è finito, tutto: un Friuli che vive sconosciuto con la mia gioventù, al di là del tempo, in un tempo rovesciato dal vento”.  “Sdrumàt dal vint”: traduce rovesciato, ma direi che significa, con asprezza maggiore, demolito (dal verbo sdrumâ). Alcuni esempi della contaminazione e del rinnegamento pasoliniano delle Poesie a Casarsa: “fontana di amòur par nissùn”, “tal to vis di merda e mèil” “al mond al è finit/ e tu i ti sos ‘na lus/ tra la storia del nuja”. Il continente romanzo è disgregato nel nulla, il timp furlan è disperso o sminuito. La voce in falsetto di Pier Paolo si è fatta aspra, ruvida, impastata. E si aggiunge, nel postumo Petrolio, il panorama desolato dell’imbarbarimento del mondo sotto la spinta del neocapitalismo omologatore, della cupezza apocalittica e onirica, della massificazione su scala planetaria, ed un costante impulso di morte. Ne siamo stati attratti e respinti, così come fummo attratti dalla sfida di Salò allo strapotere orrendo di ogni dittatura pur sentendoci respinti, come del resto Luca Ronconi, dalle scene ripugnanti. Avremmo forse dovuto indugiare a riflettere sulle angosciose dissonanze  del nostro tempo e sul processo ad una classe politica sempre più criminosamente minacciosa; ma forse avevamo ancora nella memoria il tempo del mito splendido e poetico della gioventù le cui porte ci erano state aperte e illuminate da Pier Paolo Pasolini. Quelle che Marco Antonio Bazzocchi ha definito “le eccezionali casse di risonanza degli scritti corsari e delle lettere luterane “ sarebbero rimaste la testimonianza indelebile di ciò che ancora ci turba, oggi terribilmente. Ce lo conferma la recentissima ristampa degli Scritti corsari, documenti della sua coraggiosa imprudenza.

Pasolini fu fedele al proprio trauma, a quelle che Enzo Golino definisce nevrosi didattiche, e nel percorso del proprio destino ha coinvolto e travolto sé stesso e la madre; ha fatto irruzione nella realtà “voracemente” come ha scritto Naldini, è diventato “tragicamente leggendario” come ha scritto Schwartz. Gianni Scalia nel convegno bolognese ha affermato incisivamente che essere rimasti “senza Pasolini” significa che “qualcosa di essenziale manca nel discorso intellettuale, politico, morale, religioso contemporaneo”, e il suo acuto giudizio appone un sigillo rosso vivo inconfondibile su ciò che ha rappresentato P.P.P: Pier Paolo Pasolini, ucciso e fatto tacere il 2 novembre 1975. Non si può condividere invece la condanna durissima e dissacrante del giornalista e scrittore Enzo Bettiza (che, esule dalmata espresse nei suoi scritti le sue cupe riflessioni sul destino dell’Europa) in una condanna che proclama Pasolini “pessimo scrittore, regista incapace e noioso, sciacallo notturno di ragazzi di vita” e di cui si è fatto “un santo oltre che un genio”. Stroncatura astiosa che Bettiza accomuna a quella di Fellini “regista presuntuoso e noiosissimo, anche lui beatificato, biografato, mistificato”.

Fantasma scomodo è stato definito Pasolini, destinato a scolorire tra i giovani? La regista Roberta Torre ha interrogato gli attuali ragazzi di vita del Tiburtino e ne ha ricavato risposte vaghe o preoccupanti e minimo interesse: da “un poeta che andava coi marchettari, non sapevamo che fosse morto, poveraccio” ad un negativo “non sappiamo chi sia”. Lo rimpiange invece oggi, a novant’anni, il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra che dice con voce accorata: “Mi manca Pasolini che piangeva sulle lucciole scomparse”.

Ma uscendo da una smemorata Italia e da una declinante Europa, ritroviamo un Pasolini attento e combattivo che nel Terzo Mondo ha indicato il mito della sorgente di liberazione per l’Occidente e che concepì il suo documentario splendido del 1970 su Sanaa come un appello all’Unesco per salvaguardare il patrimonio della capitale yemenita. Ricordate che nel 1950 voleva espatriare in Libano? Ebbene, a Beirut nel 2009 è uscita una raccolta delle sue poesie tradotte in arabo.

Il 18 aprile 2009 è bruciato il Bar Necci dove fu girato Accattone e alla vigilia di Natale è morto a Udine lo scrittore Carlo Sgorlon: che nel 1971 scrisse in dialetto friulano il romanzo Prime di sere, ci diede nel 1977 con Gli dei torneranno l’epopea della civiltà contadina del Friuli opposta all’avanzata massificazione, nel 1997 scrisse la Malga di Sir sull’eccidio di Porzùs e ha lasciato, postumo, in lingua friulana Ombris tal infinit (ombra nell’infinito).

Qualche giorno prima di morire, Pasolini – ce lo ricorda Roberto Villa che curò anche la mostra del convegno reggiano con Francesco Aliberti – fece la trasgressiva e paradossale proposta di abolire la scuola media dell’obbligo e la televisione per eliminare la criminalità: ed era metafora di una radicale riforma della nostra società. Villa citò anche l’incipit della scavatrice delle Ceneri di Gramsci: “Solo l’amore, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto”.

Erede di Pasolini sui problemi educativi e dentro la barbarie della globalizzazione, e irato contro il progresso quando diventa “un nodo scorsoio”, è Andrea Zanzotto: intervistato da Marzio Breda giornalista del “Corriere della Sera” ha dato forma all’uomo e al poeta, a un “maestro di coscienza” che chiede al mondo di non accartocciarsi. E Zanzotto alla fine del 2009 ha dato alle stampe per Mondadori Conglomerati dove si immerge nella natura e lamenta il trascorrere del tempo “usuraio atroce”, e irrompe sulle pericolose frontiere della scienza e dell’imbarbarimento della società, in cerca dell’ “eco di un’armonia”. Quando scrive che “la stoltezza che circola si palpa/ come un vento” si scorge in lui l’erede fedele di Pasolini, il testimone di un desiderio di elegia e il testimone della presenza di immensi cumuli di immondizia, così come era stato il ricercatore delle misteriose purezze dello Zibaldone leopardiano e l’insegnante che agli allievi faceva notare che i Promessi Sposi manzoniani narrano di peste, di fame e di guerra. Ed è lo Zanzotto che scrisse sulla morte di Pasolini: “da gran tempo avvertiva l’eccidio nell’aria, come l’ozono nella tempesta, e non lo avvertiva soltanto per sè, ma per l’epoca”.

Chi ammazzò Pier Paolo? Fu Pelosi, furono i neofascisti per vendicare Salò? O fu, come ipotizza Zigaina, il progetto di Pasolini stesso per farsi uccidere sacrificandosi come Cristo? Nel 1980 l’artista reggiano Nani Tedeschi pubblicò Cane di notte affiancando la sua mostra su Pasolini con scritti di Volponi, Escobar, Nascimbeni e altri fra cui il sottoscritto. Io, oltre ad un saggio corredato da lettere inedite, volli testimoniare con una poesia scritta in inglese il significato della morte dell’amico. In memory of Pier Paolo ne è il titolo e questi sono i versi: “In no word’s land/ your name was behind you/ with no breath of deep honey/ cut on resins of voices. / Everything was a dividing ridge,/ a dark sermon of the mount,/ windings of death all along the hovels,/ a cry of wounded child,/ systole and diastole beating the empty space. / On what a time zone were you lying at anchor?/ On the meridian of a sundy dump/ your words were lowing out”:          Nella terra senza parole/ il tuo nome fu dietro di te/ senza respiro di miele  profondo/ inciso sulle resine delle voci./ Tutto fu cresta che divide, / oscuro discorso della montagna, / meandri di morte lungo le baracche, grido di bimbo ferito,/ sistole e diastole che battevano nel vuoto./ Su che fuso eri ancorato?/ sul meridiano di un sabbioso luogo di rifiuti/ si spegnevano le tue parole.

Chiedo scusa se ancora una volta mi sono posto di fronte ad uno specchio, ma era lo specchio della memoria; poiché i miei versi intendono essere, come lo sono i disegni di Nani Tedeschi, il sincero desiderio di essere fedele ad un grande protagonista della nostra epoca, che rinnovò i moduli poetici nel poema Le ceneri di Gramsci, scritto fra il 1952 e il 1956 e pubblicato nel 1957. La scelta di Pasolini fu ideologica e problematica, fu sentimento e ammirazione, e il finale pianto della scavatrice significò la forza bruta e indifferente come strumento di un capitalismo spietatamente distruttore, benna “che cieca sembra, cieca/ sgretola, cieca afferra”.

Andrea Paolella ha compreso che la sua pubblicazione fotografica doveva terminare con l’immagine della tomba di Antonio Gramsci e con l’urlo disperato espresso nei versi “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?”.

Scritto da Luciano Serra   
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