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"Eternit, fu strage consapevole"
Martedì 15 Maggio 2012 06:21

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Il pm Raffaele Guariniello con Romana Blasotti e Bruno Pesce, tra i cittadini di Casale Monferrato protagonisti della battaglia contro l'Eternit, dopo la sentenza

«Il polverino è stato come una bomba a mano disinnescata». Per rendere il senso del disastro ambientale di Casale Monferrato, i giudici del processo Eternit scelgono la metafora di guerra spesa da un medico, Angelo Mancini, occupatosi per un quarto di secolo delle bonifiche dell'amianto in quella terra martoriata dalle «scelte scellerate» dell'Eternit. Fra cui c'era quella di cedere o regalare il polverino «contenente fibre di amianto».

Un abbraccio mortale per troppe persone vissute in case con sottotetti coibentati con la polvere di tornitura dei tubi, affacciate su aie indurite con lo stesso materiale. Costava niente o pochissimo, la gente lo credeva sicuro. Ci ha fatto i sagrati delle chiese di paese, ci ha pavimentato i cortili delle scuole. Nelle 713 pagine di motivazione della sentenza il presidente Giuseppe Casalbore e i giudici estensori Fabrizia Pironti e Alessandro Santangelo hanno scritto: «E' stato creato un immane pericolo per l'incolumità e per la salute di un numero indeterminato di persone». La condanna a 16 anni ciascuno di Stephan Schmidheiny, miliardario svizzero di 64 anni, e di Louis de Cartier, barone belga di 90, uno dopo l'altro al vertice della multinazionale, è la nemesi di questa storia che fine non ha ancora e non avrà finché «perdurerà l'inquinamento ambientale».

Di vendetta non potranno parlare gli imputati, come già in parte aveva accennato dopo la sentenza del 13 febbraio un comunicato di Schmidheiny. Le motivazioni sono dure ma distinguono: non c'è prova che il polverino sia stato distribuito a Bagnoli (Napoli) e Rubiera (Reggio Emilia), gli altri due siti industriali dell'Eternit oggetto del processo. Per questo i giudici hanno praticamente fatto coincidere la cessazione del «pericolo concreto» del disastro con la chiusura degli stabilimenti. Reato prescritto. Su Casale Monferrato e Cavagnolo (Torino) i documenti raccolti e le testimonianze erano tali da trainare la sentenza anche rispetto alla seconda imputazione: l'omissione dolosa di norme antinfortunistiche. Riassumono i giudici: «Il comportamento degli imputati assume caratteri di notevole gravità con riferimento alla pluralità dei luoghi e degli stabilimenti interessati, alla durata della condotta e alla straordinaria portata dei danni e del pericolo che tuttora continuano a conseguire».

«E' sintomatica - aggiungono - la testimonianza di Romana Blasotti, presidentessa dell'Associazione familiari vittime amianto di Casale Monferrato e che ha perduto cinque persone care. Dopo aver riferito che ad un certo punto aveva ben compreso che di amianto si moriva, anche per aver visto "tanti manifesti di morte appesi ai muri della fabbrica quando portavo i bimbi a scuola", si è chiesta: "Perché... continuare...". Da questa semplice domanda emerge tutta l'intensità del dolo degli imputati: sia de Cartier sia Schmidheiny, nonostante tutto, hanno continuato e non si sono fermati, né hanno ritenuto di dover modificare radicalmente l'ambiente di lavoro e di limitare per quanto possibile l'inquinamento ambientale». «L'elemento soggettivo (cioè la personale condotta degli imputati) appare di ulteriore gravità: de Cartier e Schmidheiny hanno cercato di nascondere e di minimizzare gli effetti nocivi per l'ambiente e per le persone derivanti dalla lavorazione dell'amianto facendo così trasparire un dolo di elevatissima intensità».

Scritto da Alberto Gaino   
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