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Diaz, undici anni per una sentenza Le istituzioni in fuga dalla verità
Mercoledì 04 Luglio 2012 07:31

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La scuola Diaz dopo la perquisizione di Polizia e Carabinieri

Parlamento e governo non hanno fatto la loro parte, la polizia si è arroccata in un'attesa a volte omertosa, il movimento si è consumato nell'esercizio su chi avesse diritto al "primato della memoria". E così il procedimento giudiziario è diventato un'ordalia che troverà, forse, la sua ultima pronuncia con la sentenza della Cassazione. I giudici della Suprema Corte potranno scegliere se confermare l'impostazione più colpevolista dell'Appello o tornare a quella di primo grado che non vide quasi responsabili. Oppure trovare una specie di "terza via"

di CARLO BONINI

ROMA - Undici anni sono un tempo infinito. Inconcepibile. Per le vittime, per gli imputati, per un'opinione pubblica, anche internazionale, che dal 21 luglio del 2001 attende una parola definitiva sulle responsabilità di quella notte alla "Diaz". Non fosse altro perché nulla, in questa storia, ha mai avuto anche solo la parvenza della "norma". A cominciare, evidentemente, dalle brutalità su 92 donne e uomini inermi consumate in quella scuola. In 11 anni, lo Stato (nelle sue diverse articolazioni istituzionali) non ha trovato il tempo, né l'occasione, per un gesto di pubbliche scuse, premessa indispensabile di ogni riconciliazione, rifugiandosi dietro il pavido argomento che questo avrebbe significato "ammettere" la responsabilità di chi stava affrontando il processo. O, peggio, fornire il destro per un "indiscriminato processo alla Polizia italiana". Come se non fosse un dato condiviso e oggettivo (dunque avulso da qualsiasi giudizio di responsabilità penale) che quella notte furono certamente "uomini dello Stato" (quale che fosse la loro identità) a violare diritti umani fondamentali.

La "sospensione" della democrazia. Ma c'è di più: il Parlamento ha rinunciato da subito, e in tre successive legislature, a indagare con gli strumenti della politica, della responsabilità pubblica, quella che "Amnesty International" ha definito "la più grave sospensione dei diritti civili dalla seconda guerra mondiale". Né ha trovato maggioranze disposte ad adeguare il nostro codice alla legislazione internazionale che prevede il reato di tortura, come se le indicibili violenze della caserma di "Bolzaneto" non interpellassero la qualità della nostra democrazia e l'urgenza di una sua continua manutenzione. La Polizia (tolta qualche isolata voce sindacale) si è arroccata in un'attesa silenziosa e auto-referenziale, talvolta omertosa, regolarmente riduttiva, convinta che il tempo e un processo di riforma interno (che pure è indiscutibilmente avvenuto) delle routine di ordine pubblico avrebbero medicato la ferita e aiutato l'oblio. "Credo e sono d'accordo con Repubblica - scrisse in una lettera aperta a questo giornale il capo della polizia Antonio Manganelli il 16 novembre 2008, dopo la sentenza di primo grado che mandò assolta la catena di comando dell'irruzione nella scuola - che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde a Genova. L'Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal fine senza alcuna riserva, non attraverso proclami via stampa, ma nelle sedi istituzionali e costituzionali". Ma, in quattro anni, di quell'impegno, nelle sedi istituzionali e costituzionali, non si è trovata traccia. Forse perché nessuno, davvero, in quelle sedi, avvertiva o ha avvertito l'urgenza di rispondere pubblicamente al "perché" di quella notte. O quantomeno di cercarlo.

Scarsa trasparenza. In questa fuga e rifiuto di un dibattito pubblico e trasparente, la supplenza affidata al lavoro della magistratura ha così messo d'accordo tutti: classe dirigente ed apparati. E' diventata salvacondotto delle loro rispettive fragilità. E non ha aiutato né la qualità, né la serenità nella ricerca della verità. La Procura genovese, per anni, ha vissuto prigioniera di una sindrome da accerchiamento, non sempre indotta, che l'ha convinta a coltivare con ostinazione un'ipotesi di infedeltà costituzionale dei vertici degli apparati di sicurezza dello Stato che i processi di merito avrebbero smentito e secondo cui "la Diaz" sarebbe stata figlia di una preordinazione illegale e violenta dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Né ha giovato l'eutanasia di un Movimento - ma meglio sarebbe dire di quel poco che ne era rimasto - che si è consumato in un esercizio autofago, spesso rancoroso, su chi avesse diritto al "primato della memoria" e dunque all'esercizio della critica e del dubbio che non fosse "ortodosso".

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E' in questo perimetro che la storia di quella notte - e più in generale i giorni del G8 di Genova - è stata degradata e ridotta ad affare esclusivamente penale che ha finito ineluttabilmente per farsi ordalia. E che in questa settimana troverà, forse, la sua ultima pronuncia, con una sentenza di Cassazione che deciderà su quanto non è già stato cancellato dalla prescrizione. Il primo di tre verdetti che, entro la fine di luglio, chiuderanno il giudizio penale sui fatti di quell'estate di 11 anni fa: "Diaz", "Bolzaneto", le condanne di dieci ex militanti per la devastazione e il saccheggio di Genova.

Responsabili o "capri espiatori"? La settimana di udienze tra l'11 e il 15 giugno scorsi (prima che il processo venisse aggiornato al 5 luglio) è stata lo specchio delle tossine che questo tempo infinito ha depositato. Mostrando come siano rimaste intatte. I giudici della quinta sezione penale hanno infatti ascoltato argomenti che, pur nel rispetto di una discussione su questioni di "legittimità" e diritto quale è un processo di ultima istanza, hanno finito per aggredire la sostanza della posta in gioco. Chi deve pagare il conto di quella notte? Per dirla altrimenti: le due dozzine di imputati di oggi sono "i colpevoli", o scontano al contrario responsabilità che condividono o che sono proprie di chi al processo è sfuggito? Perché l'allora vicecapo della Polizia Ansuino Andreassi o il questore Lorenzo Murgolo (poi transitato al Sismi di Nicolò Pollari e presente sulla scena della Diaz) solerti nel complimentarsi con il lavoro del VII Nucleo la notte dell'irruzione, e dunque perfettamente consapevoli di quanto era accaduto, si sono trasformati nell'indagine penale in pallidi figuranti svuotati di ogni responsabilità di comando? Il procuratore generale Pietro Gaeta ha sostenuto che "i processi si fanno ai presenti, non agli assenti". Che insomma non è più il tempo di interrogarsi se questo processo consegnerà alla storia dei responsabili tout court o dei "capri espiatori", vittime di una cinica resa dei conti tra bande all'interno degli apparati.

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E che è senz'altro vero che il 21 luglio, nei locali della "Diaz" si rovesciò "una macedonia di polizia" (per dirla con le parole dell'ex comandante del VII nucleo celere Vincenzo Canterini). Almeno 400 uomini rimasti per lo più tutti senza un volto e senza un nome (la Polizia, incredibilmente, non è mai stata in grado di indicarne le generalità). Ma che è altrettanto vero che la scelta di processare e condannare chi, quella notte, ebbe in un modo o in un altro responsabilità di comando (dai capisquadra del VII nucleo celere, ai funzionari e dirigenti di Digos e Sco intervenuti nella scuola dopo l'irruzione che procedettero all'arresto degli occupanti) non può essere considerata una abdicazione alla ricerca delle responsabilità individuali, o, peggio, una scorciatoia per affermare "un inconcepibile principio di responsabilità oggettiva".

Due processi agli antipodi. Il processo di primo grado lavorò su questo canovaccio decidendo di caricare l'intero peso di quella notte sulla "bassa forza" (i comandanti e i "capisquadra" del VII Nucleo, compreso, per dirne una, chi non comandava alcuna squadra, come il sottufficiale Fabrizio Basili). Sulla Celere, dunque, e qualche funzionario di secondo piano. Ultime carrozze di un treno più lungo e articolato, e per questo semplici da sganciare. L'Appello, al contrario, stabilì che, quella notte, non ci furono innocenti. E che la costruzione di false prove necessarie a giustificare a posteriori la "mattanza" di 92 innocenti (a cominciare dall'introduzione nella scuola di due bottiglie molotov, per proseguire con la falsa dichiarazione di "aver incontrato resistenza") fu per la Polizia una pagina persino più vergognosa di quella che voleva dissimulare. E per la quale tutti gli imputati dovevano pagare. A maggior ragione, chi aveva un ruolo di comando e si difende dichiarandosi "vittima dell'inganno", peggio del "tradimento", di poliziotti infedeli. Non facendo alcuna differenza, sul piano della consapevolezza, l'avere formalmente sottoscritto o meno atti di polizia (i verbali di sequestro e arresto di quella notte, successivi all'irruzione) che attestavano ciò che sarebbe risultato calunnioso. E ancora: non essendo una "scriminante" l'aver messo collettivamente la propria firma sotto un pezzo di carta di cui si dava "per scontata" una verità che tale non era, solo perché "questa è la prassi".

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Due strade. La Cassazione ha due strade. Fare proprio il giudizio di appello, confermandolo, o distinguere, come fece il giudice di primo grado. Magari accogliendo una almeno delle pregiudiziali di costituzionalità sollevate dalle difese (quella che, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo vuole un terzo processo di merito nei confronti di quegli imputati che siano stati prima assolti e quindi condannati sulla base di una semplice e opposta valutazione di una medesima prova testimoniale). Tornando così a separare i "sommersi" e i "salvati". La "testa" dal "braccio". Ovvero, lavorando sul grado di responsabilità personale di ciascuno degli imputati. Con qualche certezza, quale che sia la soluzione. Che la posta in gioco è altissima. Perché, con questa sentenza, si gioca insieme l'immagine dello Stato, il rispetto delle vittime, il destino di venticinque imputati. Alcuni di loro, in questi 11 anni, sono stati la spina dorsale della nostra Polizia (Francesco Gratteri, Gilberto Caldarozzi, Giovanni Luperi, solo per fare qualche nome). Altri, di cui l'opinione pubblica ricorda a stento il nome, hanno cominciato a scontare la pena dopo la sentenza di primo grado, in un'amministrazione che, di fatto, li ha già collocati in quel limbo dove normalmente transita chi è in odore di "mela marcia". Gli uni e gli altri chiedono di essere "uguali di fronte alla legge". Lo stesso principio che invocano le vittime di quella notte. Consapevoli tutti che non c'è sentenza che potrà metterli né d'accordo, né in pace gli uni con gli altri. Al punto che il "dopo Diaz" potrebbe persino essere più lacerante di questa "vigilia" durata 11 anni.

Scritto da Quotidiano La Repubblica   
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