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Falcone e Borsellino tragedie annunciate
Giovedì 19 Luglio 2012 11:00

borsellino

Paolo Borsellino, tragedia annunciata *

Fine giugno 1992: nell'afosa sala convegni della Mondadori a Roma decine di persone si accalcano con visi attenti e preoccupati. Molte le autorità: politici, magistrati, funzionari di polizia, ufficiali dei carabinieri, giornalisti. La presentazione del libro di Pino Arlacchi sulle confessioni del mafioso pentito Calderone è una pur triste occasione di incontro e riflessione. Poche settimane prima, sulla via di Capaci, una bomba ha fatto scempio di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti di scorta. Al tavolo della presidenza accanto all'autore siedono il ministro dell'Interno, quello della Giustizia e il capo della polizia. Vicino ad essi, timido e schivo, quel magistrato che tutti gli italiani avevano cominciato a conoscere e amare: Paolo Borsellino. Sotto il crepitìo di macchine fotografiche e i raggi incrociati di televisioni gli oratori pronunciano parole roboanti. Il libro, pur nel suo valore e nella sciagurata attualità, diviene secondario rispetto alla barbarie della strage di maggio a Capaci. "Dinanzi alla mafia- si tuona: lo Stato non cederà!". Nella strana atmosfera di commemorazione e spettacolo, il ministro dell'Interno con voce sacerdotale quasi a dare credibilità a quell'astratta volontà di impegno scandisce il grande annuncio: Borsellino sarebbe stato, se voleva, il successore di Falcone alla guida dell'istituenda Superprocura Antimafia. A nessuno dev'essere sfuggito il sobbalzo di sorpresa e imbarazzo di quel magistrato sensibile e disfatto dal dolore. Le scarne parole da lui espresse poco prima nel ricordo struggente del collega e amico Giovanni Falcone dovevano essere lame lancinanti nel cuore. Sul viso, maschera di angoscia rimpianto, preoccupazione, solo i grandi occhi azzurri continuavano ad irradiare fede e serenità. Il pentito Caldara gli aveva già detto che il suo nome era segnato, come quello di Giovanni, nella nera lista di morte; quanti funesti segnali doveva aver già ricevuto! Sorpreso e confuso, risponde in maniera sommessa, educata, sofferta, dinanzi a quella "pubblica investitura" di cui nessuno lo aveva avvisato e che cadeva in un clima politico conflittuale, persino in magistratura, per quel progetto di Superprocura ancora da costruire. Non dice di no. In quella circostanza, come avrebbe potuto? Ma chissà quali dubbi e pensieri aveva nella mente e nel cuore quel magistrato già condannato. Due mesi dopo, 19 luglio: tre auto si fermano dinanzi a un alto palazzo di via D'Amelio a Palermo. La vecchia madre attende il figlio giudice che viene a trovarla. Le ha appena telefonato. Eccolo. Sceso dall'auto, attraversa di corsa i pochi metri sino al portone. Un boato. E' subito morte, per lui e i suoi cinque agenti di scorta. Paolo Borsellino è ora quel corpo dalle braccia strappate, che brucia sull'asfalto. L'autobomba era parcheggiata da giorni, infida e distruttrice, dinanzi all'abitazione dove tutti sapevano che il giudice andava sovente. Quanto tempo sembra passato e quante pagine gli italiani iniziano a leggere nella strana storia di questo paese. Molti capi militari di mafia sono stati infine arrestati, mancano quelli finanziari, burocratici, politici, ma nuove piste si aprono, "tangentopoli" inclusa. Il pentito Caldara, intervistato in televisione, ricordava cosa aveva risposto il giudice quando gli aveva comunicato che la mafia l'avrebbe ucciso: «È bello morire per un ideale in cui si crede». Grazie Paolo Borsellino, uomo giusto.

ennio di francesco

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Falcone, Borsellino, Morvillo e gli agenti di scorta, martiri di giustizia*

Le parole non servono. Non ci sono più lacrime. I confini invisibili di vita e morte, morale e fisica, individuale e collettiva, sono caduti. Forse per sempre. Il contratto sociale cittadini-stato è spezzato. La scure delle coscienze e della rivolta affonderà nelle colpe di ciascuno e di tutti. Difficilmente in quella dei boia vigliacchi, esecutori e mandanti. Ma un giorno forse, leggi non scritte di nemesi e maledizione ricorderanno anche ad essi lo scempio dei fratelli. Ventitré di maggio: nell'autobus che corre sul ponte di Capaci, risate di ragazzi scandiscono ignare il crepuscolo sul mare infuocato di Sicilia. Forse quel signore dai baffi brizzolati, nell'incrociarli con la sua auto blindata e veloce, scortata da altre, ne ha percepito la gioia di vita. Il suo sorriso radiosamente triste e bello trasmette nostalgia e serenità alla sposa a lui accanto. Quelle risate ignare sono ormai lontane, lontane. Dopo minuti di eternità, il boato. Morente Giovanni Falcone protende l'ultimo sguardo d'amore per un impossibile aiuto al corpo straziato della moglie Francesca.. Che messaggio tra loro deve esservi stato. Dio solo sa. Attorno la terra divelta si tinge di rosso coprendo come madre eterna quanto resta dei tre giovani poliziotti che hanno protetto quel giudice sino all'ultimo. Le carni sono miste a motori e lamiere. Poi la storia di sempre: rabbia e discorsi per questo Stato debitore di vita. La lista è più lunga di altri cinque nomi di marmo: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, magistrati, Antonio Montinaro, Vito Schifano, Rocco Di Cillo, poliziotti.

Quasi due mesi dopo tre auto si fermano dinanzi ad un alto palazzo di via D'Amelio, a Palermo. Gli inquilini sono quasi tutti fuori nell'afosa domenica di luglio, altri riposano o accudiscono bimbi irrequieti. La vecchia madre malata attende il figlio che viene a trovarla. Dita diverse disegnano nello stesso attimo due diversi destini, d'amore e di morte. Un uomo coi baffi sottili sceso dall'auto attraversa di corsa i pochi metri sino al portone. Una bionda esile ragazza lo segue con sguardo ansioso di poliziotta, quasi di figlia. Altri agenti sorvegliano attenti, mano alle armi. Un dito preme il citofono: "sono Paolo". Il cuore della mamma sobbalza di gioia: ecco il figlio. Vicino in agguato il dito dell'uomo in coppola preme il pulsante di un comando a distanza. Boato, distruzione e morte. Paolo Borsellino è ora quel corpo dalle braccia strappate che brucia sull'asfalto. Di Emanuela Loi, la bionda poliziotta, resta sul posto solo un'imbelle fondina di pistola. Più tardi una rosa, subito appassita. Lei e gli altri agenti di polizia sono brandelli di carni e divise dispersi sui muri, per terra, sugli alberi, tragiche macchie e frutti di sangue. Dal vile rifugio dell'omertà, il bieco sicario tranquillizzerà il mandante in qualche ovattato palazzo.

Ancora la storia di sempre: rabbia e discorsi, lacrime e promesse, messe ed applausi. Ancora riti per l' interminabile fila di morti per questo Stato, debitore di vita. La lista è più lunga di altri sei nomi: Paolo Borsellino, magistrato, Emanuela Loi, Vincenzo Limuli, Walter Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina, poliziotti. Lo scacciapensieri continua a suonare lugubre senza tempo sui monti di Sicilia, per i martiri di una giustizia perduta. E tu, Stato, dove sei? Che dirai, che diremo ai figli? Non servono le parole. Non ci sono più lacrime.

Ennio Di Francesco – fine luglio 1992

Scritto da Pres. Ass. Emilio Alessandrini   
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