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Mennea: C'è del marcio dentro il Cio
Mercoledì 27 Marzo 2013 08:24

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Ben lungi dal promuovere i valori genuini dello sport, il Cio è in realtà un'associazione di imprese con legami molto solidi nel mondo della politica e del business. Ricordiamo uno dei più grandi atleti italiani di tutti i tempi ripubblicando un articolo, uscito su MicroMega 4/2008, in cui descrive senza reticenze cosa si nasconde dietro i cinque cerchi olimpici.

di Pietro Mennea, da MicroMega 4/2008

Il Cio – il Comitato olimpico internazionale – ha commesso un grave errore nell'assegnare i Giochi olimpici alla Cina. Un errore che si è voluto compiere di proposito, perché il problema dei diritti umani non è certo sorto all'improvviso e in tempi recenti. Il dramma del Tibet, come quello del Darfur, della Birmania, e di molti altri scenari internazionali, è ormai noto a livello mondiale da diversi anni. Il Cio era perfettamente al corrente di tutto ciò, ma ha preferito girare la testa dall'altra parte.

La Cina, dal canto suo, ha colto l'occasione straordinaria di poter usufruire di una vetrina internazionale di grandissimo prestigio. Ospitare i Giochi olimpici significa mobilitare un intero paese in uno sforzo collettivo capace di dare nuovi traguardi simbolici e una nuova identità alla nazione, indipendentemente dal fatto che gli strutturali problemi legati ai diritti umani persistano e anzi si aggravino.

Ma cosa c'è dietro questo «errore» del Cio?

Ci sono ragioni di carattere politico ed economico. Va innanzitutto precisato che Jacques Rogge è stato eletto presidente del Cio subito dopo l'epopea Samaranch, all'indomani delle Olimpiadi di Sidney 2000. Samaranch appoggiò Rogge nella contesa per la futura presidenza contro il suo rivale Dick Pound, che è stato fino alla fine del 2007 presidente della Wada, l'agenzia mondiale antidoping. Oltre all'appoggio di Samaranch, Rogge per essere eletto ha avuto bisogno dei voti dei membri asiatici del Cio. Questi voti glieli ha garantiti la Cina, ma naturalmente non lo ha fatto senza chiedere nulla in cambio.

C'è da aggiungere che le modalità con le quali sono selezionati i membri dell'assemblea del Cio che detengono il diritto di voto, non hanno nulla a che fare con procedure dotate di una qualche parvenza di democrazia.

Eccezion fatta per una parte che è nominata dagli atleti, i membri del Cio sono sostanzialmente cooptati dall'alto: una federazione mondiale, un comitato olimpico o un membro Cio segnalano una candidatura e poi l'assemblea, che è composta da 115 membri, ratifica formalmente la nomina.

Il Cio non rispetta alcun principio di democrazia interna e per questo, dovessi avanzare una proposta concreta per la sua riforma, partirei dalla necessità di introdurre meccanismi che garantiscano l'alternanza e il ricambio di chi ha ruoli di dirigenza e di governo. Oggi i membri del Cio costituiscono una casta di «inamovibili», infatti, ad eccezione del presidente, non c'è alcun limite al loro mandato e nessuna regola in grado di garantire trasparenza e democraticità alla procedura di elezione.

Questo sarebbe l'unico modo per sottrarre il Cio al ricatto delle lobby e rompere l'assoluta autoreferenzialità che ne contraddistingue l'operato.

Quando si afferma che il Cio è un ente che fa politica attivamente, alcuni rimangono stupiti. Ma non c'è nulla di cui stupirsi, perché è sempre stato così. Il fondatore del movimento olimpico moderno, Pierre de Coubertin, era uno che faceva politica: come si possono ignorare, per esempio, le implicazioni politiche di una scelta come quella di assegnare i Giochi olimpici alla Germania nazista nel 1936? De Coubertin all'epoca era presidente onorario a vita del Cio e presentando quei Giochi olimpici scrisse che la Germania nazista aveva toccato lo zenit dell'orizzonte sociale, mentre condannò duramente paesi democratici come la Francia e l'Inghilterra. De Coubertin non aveva alcun interesse per gli ideali classici dei Giochi, ma voleva preparare la gioventù francese a governare l'Europa attraverso l'esercizio fisico. La Germania nazista, in tal senso, gli appariva come un modello di quella celebrazione della forza e della disciplina che non rintracciava nella decadente Francia democratica di quegli anni. Lo stesso Hitler preparò i Giochi con l'intento di farne una vetrina per il Reich e per quell'ideale di supremazia della razza ariana che ispirò il suo folle disegno politico.

Ma non è necessario andare così indietro nel tempo. Nel 1972, agli albori della mia carriera sportiva, il presidente del Cio era Avery Brundage, un americano filonazista, a un'impresa del quale la Germania di Hitler commissionò la costruzione dell'ambasciata tedesca negli Stati Uniti. Brundage apparteneva peraltro a un esclusivo club di San Diego esplicitamente razzista. Anche lui faceva politica, come faceva politica il suo successore Juan Antonio Samaranch, ex gerarca della Falange spagnola e fedelissimo di Franco poi riciclatosi nel mondo dello sport. Samaranch riuscì a ottenere la presidenza del Cio con una «magistrale» mossa di diplomazia: quando gli Usa decretarono il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca del 1980 in seguito all'invasione dell'Afghanistan da parte dell'armata rossa, Samaranch – che è stato per lungo tempo ambasciatore della Spagna in Urss – convinse il Comitato olimpico spagnolo e molti paesi occidentali a mandare ugualmente i propri atleti ai Giochi e questo gli procurò l'appoggio del blocco sovietico nell'elezione che lo avrebbe incoronato di lì a poco nuovo presidente del Cio.

Anche oggi non si possono comprendere le dinamiche interne al Cio senza soppesarne i legami con il mondo della politica. Anche in casa nostra, fra i membri italiani del Cio, vi sono personalità che hanno fatto e fanno politica attivamente, con incarichi prestigiosi nelle più alte istituzioni della Repubblica.

Passando alle ragioni di carattere economico che sottendono alla scelta della Cina come paese organizzatore dei prossimi Giochi olimpici, occorre fare una breve premessa.

Nonostante il Cio sia un ente senza scopo di lucro, svolge attività aventi natura economica, e ciò lo assimila a una associazione d'impresa, sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista delle sue regole di condotta e delle sue finalità.

Per quanto riguarda la natura giuridica del Cio è quella di un ente di diritto privato, «in conformità a quanto disposto agli artt. 60 e ss. del codice civile svizzero (regola 19 della Carta olimpica)», tanto è vero che la sua sede legale sin dalla sua fondazione si trova in Svizzera nella città di Losanna. Gli atti emanati dal Cio non hanno la forza di uno strumento giuridico, se non nei confronti dei tesserati, perché il Cio non è riconosciuto come un soggetto internazionale, non ci sono norme di organi internazionali che qualificano questo soggetto giuridico. Ci sono solo due convenzioni che parlano del Cio come di un organismo che sovrintende al movimento olimpico: una è la Convenzione sull'apartheid nello sport, del 1985, e l'altra è la Convenzione di Nairobi per la protezione del simbolo olimpico, del 1981. Oltre a questo non c'è più nulla.

Il Cio è dunque un ente di diritto privato e come tale può e deve muoversi, per quanto sia un ente che esercita la propria attività in regime di monopolio. Non deve rispondere in sostanza a nessun ente pubblico, a nessun organismo internazionale, non ha alcun codice etico da rispettare né tanto meno standard legislativi che sia in grado e abbia interesse di imporre ai paesi che partecipano al movimento olimpico.

Il Cio è un'associazione di impresa e come tale svolge anche attività economica. Quando vengono ceduti i diritti televisivi di un'edizione dei Giochi olimpici, quando vengono venduti persino i diritti per proiettare immagini di archivio come quelle di Jesse Owens a Berlino nel '36, è evidente che viene posta in essere un'attività di impresa. Lo stesso vale quando viene stipulato un contratto di sponsorizzazione con, ad esempio, la Coca-Cola, che è sponsor olimpico fin dal 1928: se il movimento olimpico ha raggiunto una tale importanza lo deve anche a questa azienda. Il Cio ha da poco rinnovato fino al 2020 il contratto con la Coca-Cola, che scadeva quest'anno, per una somma pari a 250 milioni di dollari. Sono cifre che possono fare intuire molto facilmente quali giganteschi interessi possono celarsi dietro a questi eventi sportivi (e possono anche aiutare a capire perché in passato il Cio abbia avuto anche problemi di corruzione. Un caso eclatante scoppiò in occasione dei Giochi olimpici di Salt Lake City, negli Stati Uniti, ma più in generale il Cio è una struttura non estranea a fenomeni di corruzione).

Le Olimpiadi di Pechino rappresenteranno il più grande evento mondiale degli ultimi anni, un evento che, si è calcolato, sarà visto per almeno un minuto da 5 miliardi di persone, su una popolazione mondiale di 6,6 miliardi. I paesi che hanno acquistato i diritti televisivi sono 220 ed è quindi naturale che le aziende che vogliono far affermare un marchio investano nei Giochi. Undici multinazionali hanno investito nella sponsorizzazione globale dei Giochi – nei vari paesi del mondo – 100 milioni di dollari, e moltissime altre aziende hanno investito somme altrettanto importanti all'interno della Cina, e passando direttamente per il Cio.

Il mercato interno che la Cina può garantire, inoltre, non ha eguali al mondo, e infatti è un fattore che ha un'enorme incidenza negli equilibri economici internazionali ben al di là dei Giochi olimpici del 2008. Assegnare i Giochi alla Cina, un paese con 1 miliardo e 300 milioni di abitanti, è una cosa ben diversa dall'assegnarli alla Grecia, che di abitanti ne ha 11 milioni. La Cina doveva essere assegnataria dell'edizione del 2004, ma ha perso per un voto. E così è stata risarcita con l'edizione successiva, come del resto la Grecia era stata risarcita con l'edizione del 2004 dopo che nel 1996 i giochi del centenario – che dovevano tenersi nel paese dove le Olimpiadi sono nate – erano stati assegnati ad Atlanta, la città della Coca-Cola.

Per quanto concerne il Cio, gli affari vengono fatti prima, durante e dopo le Olimpiadi. Il Cio è un'organizzazione di circa duecento persone e intasca un ricavato che nella passata edizione era pari a circa 3 mila miliardi di vecchie lire, ma che sarà certamente superiore per i Giochi del 2008.

Detto tutto questo – e non mi pare certo di essere stato tenero con il Cio né di aver nascosto gli interessi politici ed economici che vi sono dietro certe decisioni – devo anche dichiarare che personalmente sono contrario al boicottaggio sportivo di Pechino 2008. Il Cio non doveva assegnare i Giochi alla Cina, ma una volta che la decisione è stata presa e una volta che i vari comitati olimpici nazionali si sono pronunciati contro il boicottaggio, il Coni non poteva fare altro che adeguarsi.

Io sono contrario al boicottaggio – quando questo boicottaggio risulta per forza di cose parziale, vista la disponibilità degli altri paesi a partecipare – perché quelli che poi ci rimettono sono sempre e solo gli atleti. Lo dico con una qualche esperienza, dal momento che ho disputato 5 Olimpiadi di cui 3 boicottate. Nel 1976 a Montreal ci fu il boicottaggio da parte di un gruppo di paesi africani per protesta contro l'apartheid. Nel 1980 le Olimpiadi di Mosca furono boicottate dagli americani e noi italiani, essendo alleati degli Stati Uniti, abbiamo dovuto dare loro un «contentino» e ci siamo inventati quella strana formula di non mandare gli atleti appartenenti a corpi militari; alcuni miei amici, alcuni colleghi di staffetta, persa quell'occasione non hanno più avuto possibilità di gareggiare alle Olimpiadi. Un quadriennio è lungo e per la carriera di un atleta saltare un appuntamento così importante può rappresentare la fine del sogno inseguito per una vita. Dopo Mosca, ci furono le Olimpiadi di Los Angeles, che per tutta risposta furono boicottate dall'Urss e dagli altri paesi del Patto di Varsavia.

Il boicottaggio sportivo parziale non ha alcuna utilità. O partecipano tutti, e allora è proprio impossibile assegnare le medaglie, o si ottiene il solo risultato di impedire a qualche atleta di gareggiare, mentre il grande evento implacabilmente va avanti.

Diverso è il discorso per il boicottaggio di tipo economico o politico, anche espresso con gesti plateali dal punto di vista simbolico. Sono ad esempio favorevole al boicottaggio della cerimonia di apertura da parte dei leader politici: sarebbe un segnale forte e importante verso la Cina.

Tengo a precisare che non ho assolutamente nulla contro la Cina, contro la popolazione cinese. È evidente però che lì c'è un problema di diritti umani che coinvolge tanto le minoranze sottoposte al regime di Pechino, quanto i cinesi stessi, che sono privati delle più elementari libertà civili e democratiche.

Mi ha fatto molta impressione leggere ad esempio che quando c'è stato il recente terremoto che ha colpito le province del Sud-Est della Cina, la prima preoccupazione delle autorità non è stata quella di soccorrere le persone rimaste sepolte sotto le macerie, ma di occultare quanto avvenuto per paura di scoraggiare gli investitori stranieri. È il segnale di una modalità ancora feudale di concepire il potere pubblico a fronte di una modernizzazione economica senza precedenti. Io non ho nulla contro lo sviluppo economico della Cina, ma vorrei che fossero rispettati i diritti umani della sua popolazione. La mancanza del rispetto di elementari standard di tutela dei diritti civili e sindacali, e di salvaguardia dell'ambiente, influisce per altro sulle condizioni nelle quali le nostre stesse aziende si trovano a operare e competere.

Dico tutto questo come cittadino e come olimpionico. Credo che l'atleta, in virtù dell'enorme coinvolgimento emotivo da cui le sue gesta sportive sono accompagnate, possa e debba avere un ruolo che impone anche una certa responsabilità civile. Quando un atleta partecipa da tesserato della propria federazione a questi eventi internazionali, si esprime attraverso l'attività agonistica, ma non può cessare di esistere come uomo ed evitare che il suo cervello continui a ragionare e a porsi delle domande. L'atleta è in primo luogo una persona e un cittadino e deve essere libero di poter esprimere tranquillamente le proprie opinioni. Sono pertanto assolutamente contrario a quei provvedimenti che sono stati minacciati da parte di alcune federazioni verso gli atleti che manifesteranno pubblicamente le loro posizioni durante i Giochi olimpici di Pechino.

Ricordo ad esempio i clamorosi gesti di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi del Messico nel 1968. Questi atleti hanno pagato duramente la loro coraggiosa presa di posizione, l'hanno pagata con la sospensione dalla squadra americana di atletica, l'espulsione dal villaggio olimpico e la successiva emarginazione da parte dell'ambiente dello sport. Considero molto grave quello che è accaduto a questi atleti, perché nessuno può essere privato della libertà di esprimere le proprie opinioni e le idee in cui crede. Questo è proprio ciò che dovrebbe distinguere la nostra cultura da quelle che non rispettano i diritti umani e la libertà di espressione.

Il senso e il significato profondo dello sport è quello di aprire, formare, far crescere, migliorare una persona. È dunque un controsenso chiedere a un'atleta di rinnegare la propria persona nel momento in cui si cimenta in una competizione sportiva, per quanto devo ammettere che queste competizioni hanno ormai poco a che fare con il senso profondo dello sport mentre hanno molto a che fare con il business.

Non è cambiata soltanto la cornice entro cui si sviluppa l'evento sportivo, ma è cambiato l'evento, il gesto atletico in sé. Faccio un esempio legato alla mia personale esperienza. Io ancora oggi sono conosciuto come colui che si è allenato più di tutti in assoluto al mondo. Ero uno che si allenava tantissimo, 5-6 ore al giorno, tutti i giorni e con carichi di lavoro disumani, bestiali, che nessun atleta che si conosca – anche attualmente in attività – è mai riuscito a sostenere. Quel lavoro mi ha garantito una longevità sportiva che non ha pari al mondo: in vent'anni di carriera, e per giunta da velocista, ho partecipato a cinque Olimpiadi, non ho mai saltato un evento importante, e non ho mai subito uno strappo muscolare, nonostante corressi in continuazione i 100 metri con tempi attorno ai 10 secondi e i 200 metri intorno ai 20 secondi (vi erano eventi nel corso dei quali correvo anche 10 gare!). Ecco, con tutto questo lavoro, dopo vent'anni di carriera e di duri allenamenti pesavo solo un chilo e mezzo in più di quando avevo cominciato. Francamente, in base alla mia esperienza, trovo innaturale come certi atleti riescano a mettere su certe masse muscolari impressionati in così poco tempo. Dico solo che a me, sostenuto esclusivamente da metodi naturali e da una buona metodologia di allenamento, non è capitato e non mi pare che – rispettando gli stessi vincoli – sia possibile riuscirci.

Del resto oggi chi diventa il numero uno in una disciplina diventa una vera e propria impresa. E attorno a questa impresa devono guadagnare un po' tutti: l'allenatore, il manager, i medici, gli sponsor.

Lo sport è dunque cambiato molto negli ultimi anni. Ma da sportivo non posso e non voglio guardare a questi cambiamenti come all'inesorabile crepuscolo di tutti quei valori che tanto hanno ancora da insegnare a milioni di giovani in tutto il mondo. Non si tratta di chiudersi rispetto alle innovazioni tecnologiche e allo sviluppo economico che hanno caratterizzato la storia degli ultimi decenni a livello globale, ma di costruire un sistema di regole tale che gli interessi politici e di mercato non invadano ogni aspetto di un evento sportivo. E affinché questo sistema di regole possa svolgere la propria funzione, è necessario garantire a organismi come il Cio i necessari requisiti di autonomia, trasparenza e democraticità.

Scritto da Pietro Mennea   
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