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Le scarpe da tennis di Iannacci
Lunedì 01 Aprile 2013 08:22

Le_scarpe_iannacci

El portava i scarp del tennis

Enzo Jannacci

Che scuse', ma mi vori cuntav

d'un me amis che l'era anda' a fa'l bagn

sul stradun per andare all'Idroscalo

l'era lì, e l'amore lo colpì.

El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu

rincorreva già da tempo un bel sogno d'amore.

El purtava i scarp de tennis, el g'aveva du occ de bun

l'era il prim a mena via, perché l'era un barbun.

Un bel dì, che l'era dre' a parla'

de per lu, l'avea vista passa'

bianca e rossa, che pareva il tricolore

ma po lu, l'è sta bon pu' de parla'.

El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu

rincorreva gia' da tempo un bel sogno d'amore.

El purtava i scarp de tennis, el g'aveva du occ de bun

l'era il prim a mena via, perche' l'era un barbon.

(parlato)Un bel di a che'l pover diavul che riva na machina, si,

arriva una machina ven giu' vun e domanda: "Ohe'!" "A mi?"

Si', a lu, savaria, savaria no per piasee' la strada per andare

all'aeroporto Forlanini? "Non conosco l'aeroporto Forlanini"

"L'Idroscalo lo conosce?" "Si, l'Idroscalo lo conosco, al so in

dua l'è l'Idroscalo, l'accompagno io all'Idroscalo però mi fa salir

sulla macchina, e' forte questa, bella questa macchina, è sua?"

"Sì, lasa sta la machina barbon..."

"La macchina non l'ho mai vista..se mi fa salire sulla macchina

ci dico la strada per andare all'Idroscalo, se no niente...

si fa per dire insomma...Mangiare bere e andare a spasso, questa è la vita"

"Allora la strada per l'Idroscalo?" "Vengo sulla macchina e ce lo dico...

vengo anch'io sulla macchina, non sono mai stato su una macchina,

specie di dietro....poteva farmi salire anche davanti, tanto non

sporcavo mica...sta macchina c'ha tutto, freni, frecce,

anche la marcia indietro? Bene, così siamo a posto...

anche mio cugino Aristide aveva la macchina, ferma però,

gh'è durmiva denter....Aristide...dopo è morto, lui è la macchina,

l'è s'cioppà tutti e du.....ostia Aristide...e rideva semper...

Ferma signore, che sono arrivato" "come arrivato?" "Sono arrivato chi.

(cantato) Un piasee', ch'el me lasa gio' chi

che anca mi mi go avu il mio grande amore

roba minima, s'intend, s'intend roba da barbon.

El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu

rincorreva gia' da tempo un bel sogno d'amore.

El purtava i scarp de tennis, el g'aveva du occ de bun

l'era il prim a mena via, perche' l'era un barbon.

L'an truva' sota a un muc de carton

l'an guarda' che 'l pareva nisun

l'an tuca che 'l pareva che'l durmiva

lasa sta che l'e' roba de barbon.

El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu

el purtava i scarp de tennis, perche' l'era un barbun,

el purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu

el purtava i scarp de tennis, perche' l'era un barbun...

Poeti e cantautori "dalla parte degli ultimi" ce n'è una pletora, da sempre. È una retorica consolidata ma un po' generica, e anche facilitata dalla buona coscienza che la riscalda. Ma se volete dare a Jannacci quello che è di Jannacci dimenticatevela, quella retorica.

LA MILANO che ha raccontato, l'umanità che ha raccontato, camminava lungo i suoi stessi marciapiedi, rasentava gli stessi muri di fabbrica, saliva sul suo stesso tram, tirava tardi negli stessi cine e nelle stesse trattorie fumose. Aveva la sua stessa faccia pallida e notturna, la favella poco tornita e spesso difficoltosa dei non-signori, quei modi da bar prima dell'orario di chiusura. Enzo ci era cresciuto, ci viveva in mezzo, era fatto di quella stessa materia.

Per questo non gli servì mai appigliarsi ad alcuna retorica, tantomeno quella politica.

Era un uomo di sinistra, ma gli riuscì di cantare il popolo senza mezzo pretesto celebrativo, senza mezza intenzione ideologica. L'arte di Jannacci è la prova provata che "popolare" e "populista" non sono sinonimi. Sono, semplicemente, l'opposto.

Un'asciuttezza brechtiana (Milano in quegli anni, grazie al Piccolo di Grassi e Streheler, era la città più brechtiana del mondo) fece da scuola agli artisti milanesi della sua epoca, e diede vigore teatrale alla sua vena malinconica, che era struggente e prendeva al cuore, prendeva alla gola (anche la sua). La comicità disarticolata, implacabile, i suoi tempi comici geniali rischiano di far passare in second'ordine la profondità tragica del suo canto, le solitudini, le povertà d'amore, l'impaccio sociale dei suoi eroi di periferia. Scegliere tra "Veronica" e "Ti te sé no", tra "Vengo anch'io" e "Sfiorisci bel fiore", tra l'Enzo comico e l'Enzo drammatico sarebbe impossibile e ingiusto; ma siccome la memoria rischia di privilegiare il successo e l'allegria, per carità teniamoci stretti lo Jannacci sgranato e ferito di certe canzoni dove la voce gli piangeva, perché è quello che rischia di sparire nelle celebrazioni e nelle antologie televisive: e sarebbe un delitto.

Artista immenso, libero di mente, riconoscibile alla prima nota o alla prima parola, manipolatore di tanti diversi suoni e stili (il jazz, il rock delle origini, la canzone classica, il cabaret, il teatro musicale), Jannacci è stato un prototipo irripetibile, così irripetibile che di nessuno si è mai sentito dire "è il nuovo Jannacci", e mai si sentirà. Soprattutto, ripensandolo e risentendolo, viene la paura che quel momento storico, quella Milano, quell'arte così frequentata e ricca di protagonisti che ogni elenco rischia di essere in difetto, siano una specie di unicum nella storia recente di questo Paese. Il dopoguerra e quel popolo magro, famelico di vita, mediamente povero, carico di fantasie e spesso anche di fantasia, che ci diede attori, registi, scrittori, teatranti grandiosi, ormai quasi tutti andati, uno dopo l'altro. Loro erano bravi, molto. Ma li aiutava, forse, anche il paesaggio umano, quegli italiani febbrili e solidi, gli operai e i borghesi, le grandi illusioni politiche, il fumo delle fabbriche ancora respirato in fondo ai polmoni senza davvero credere che facesse male, come le Nazionali o le Emme Esse.

Il popolo come lo ha cantato Jannacci - magistralmente - era un popolo cantabile.

Raccontabile. Dice oggi Diego Abatantuono, non certo il più "militante" dei suoi amici, che Enzo cantava "i cappotti con la martingala, le operaie, gli operai, la classe operaia" (reiterazione poetica che sembra già il verso di una canzone).

Rinascesse oggi, lungo i muri delle fabbriche vuote, in una Milano perduta, nuovissima, sconosciuta, anche se il suo amato figliolo Paolo - ottimo pianista - gli desse il la, forse Enzo Jannacci farebbe solamente il medico, non più l'artista. Ma davanti alla sua camera ardente, sotto la pioggia di ieri, se ne stava comunque in coda una Milano palpitante di riconoscenza, stretta d'amore attorno al suo artista così amato, così capito, così rimpianto. Un altro figlio di immigranti come Enzo, Antonio Albanese (Milano, senza immigrati, semplicemente non sarebbe mai esistita), in fila con gli occhi rossi, mi ha detto: "Lo sai cosa ho pensato, in mezzo a tutta questa gente? Ho pensato che Milano è bellissima".

Scritto da Quotidiano la Repubblica Miche Serra   
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