Il Noi e l'Io
Alberto Abruzzese
In sintesi: il carcerato è carne viva reclusa dalla pietra e cemento del carcere, così come la persona viene quotidianamente reclusa dal soggetto sociale. Proviamo a sciogliere in discorso questa sentenza. A parte i nessi più ovvi, di causa-effetto, tra la pandemia e le viste sommosse e le oscurate tragedie carcerarie, c’è una più sostanziale relazione tra le rappresentazioni istituzionali, culturali e politiche della sofferenza dei carcerati e i contenuti della pandemica esistenza ormai da tempo in corso e in crescita esponenziale dentro e fuori dai social?
Cos’è da sempre – da che la società s’è fatta società dei delitti e delle pene – la vita di un solo individuo per il quale, recluso dentro le mura di una cella, non c’è alcuna garanzia di giusta pietà umana? Cos’è persino adesso che la società, sentendo a rischio il proprio ordine e i propri ordinamenti, si affida alla propaganda di ogni buon sentimento di patria, bontà e carità? Di felicità familiare e buon governo? Tutti valori, questi, che sono la faccia bifronte di ogni bene e male, pace e guerra, della Storia. Da sempre. Ma ora cosa diventa o può divenire il senso di libertà degli individui, liberi o segregati, a seguito dell’attacco virale e dei tanti provvedimenti presi dal parlamento italiano contro il nemico mortale che sta invadendo tutti noi in Italia e nel mondo intero o, almeno al momento, quello più illuminato dai fari dell’Occidente?
Il carcerato – disprezzato e umiliato dalla quasi generalità dei saperi istituzionali incardinati nei diritti esclusivi del cittadino – è la figura che più incarna e rappresenta la condizione della singola persona di fronte al potere e ai suoi interessi. Figura estendibile a molti altri diseredati della terra: costretti nell’infelicità, sofferenza e miseria dei loro recinti. E cruentemente respinti nel tentativo di liberarsene. L’insieme di poteri che – in gradi infiniti di tirannide – compongono la qualità dei sistemi sovrani sul mondo, si mostra con gli stessi occhi bendati, la stessa bilancia, la stessa spada della convenzionale rappresentazione della Giustizia. Pesi e misure che impongono amputazioni: così, alla carne sensibile che vive nel corpo di un singolo individuo, le leggi concedono di esistere non come persona ma solo in quanto corpo assoggettato al suo ruolo sociale ovvero appartenenza identitaria, lavoro e professione.
Si apre a questo punto la considerazione su come il sistema di potere, in cui la persona è inscritta solo a patto di condividerne la soggettività, vada ora operando alla propria sopravvivenza nella situazione di malattia virale, massima e cieca disgregazione, del proprio tessuto sociale. Innegabile: lo sta facendo nella forma culturale – ideologica, sociale e politica – di una strumentale ricostruzione di sé attraverso i medesimi valori del proprio passato e del suo attuale stato di presunta salute. Sono innumerevoli i segnali di questa preventiva restaurazione. Tuttavia, è ben difficile pensare che possa accadere diversamente, a meno di non ricorrere ad una vera e propria trasmutazione dei valori del soggetto moderno. E questo può succedere solo facendo forza e perno sulla persona invece che sul soggetto che la possiede. Quanto tale trasmutazione non stia accadendo e abbia poche probabilità di accadere ad opera della soggettività moderna, delle sue odierne politiche, lo si può evincere da innumerevoli segnali.
I tanti provvedimenti congiunturali e appelli dal basso e/o dall’alto, per superare il contagio – sufficienti o insufficienti che siano sul piano tecnico e operativo della cura e prevenzione del male – conservano e anzi accrescono i valori di fondo di una civiltà che, alla paura di collassare, risponde con tutte le sue tradizionali credenze. Ed anzi le rafforza quale sia il loro fronte identitario e ideologico. Nella bolla mediatica di pareri e commenti sul presente e, abbastanza alla cieca, sul futuro di questa catastrofe, prevalgono di netto quelli dettati dall’idea che l’apocalisse di ciò che si è infranto vada urgentemente ricondotta alle diverse precedenti, ordinarie, condizioni e mentalità del nostro stesso sistema sociale.
Con l’obiettivo, inevitabilmente dato per urgente, di frenare il dilagare di una generale “fobocrazia”, ogni “parte” del sistema, ogni sua contrapposta auto-rappresentazione, ogni sua diversa agenzia di persuasione, tenta di reagire facendo ricorso alle proprie passate certezze e credenze. Siano esse espressione della necessità di modificare oppure conservare le proprie strategie e la natura dei propri obiettivi. Significative in tal senso – direi più dei talk show divulgativi – sono le opinioni della cultura di livello alto. Tra tutte, ne scelgo una soltanto, ma di particolare evidenza in quanto proveniente dal pensiero di un grande filosofo tuttavia militante come Massimo Cacciari. Non si tratta di un appello – come quello fatto, per dirne uno soltanto, da Marco Damilano – a partecipare a una “nuova resistenza”. Oppure, da altri consanguinei, a un “nuovo Stato”. Ma si tratta di una prima pagina (sempre su L’Espresso) che il filosofo ha scritto ricorrendo all’espediente fantascientifico di fingere un rapporto sulla situazione nazionale-globale dopo vent’anni dalla odierna catastrofe. Un espediente che ha il merito di dimostrare la totale scarsa fiducia di Cacciari sui modi in cui il nostro sistema di potere (le sue teorie e tecnicalità, i suoi professionisti e apparati) sta affrontando l’emergenza.
Ma al tempo stesso la radicalità del suo punto di vista lo porta a immaginare un ritorno – un “balzo” dice – alla Grande Politica. In questa illustre, classica, formula Cacciari vede la sola capacità di “cura” e dunque risanamento, recupero, delle rovine del sistema attuale, da lui bene elencate una ad una, quasi fosse un giornalista. Ecco così che, ricorrendo alla quintessenza del pensiero politico moderno, alla necessità di ricostruirlo per ricostruire, il filosofo mostra di credere che non vi sia da fare altro di meglio che ricomporre l’infranto facendo ricorso alle forme di storico assoggettamento della persona allo stato di necessità della società in cui è inscritta. Dunque, non alla persona, alla sua vita singolare, ma al soggetto che la struttura dentro la propria piattaforma politica.
Passaggi occidentali Prima di argomentare il nodo per me cruciale della differenza della persona rispetto alle varie identità su cui si fonda la società, devo tentare la sintesi di alcuni passaggi occidentali: una traccia molto rozza e approssimativa, fatta per semplici punti. Tutto sommato lo fanno anche figure come Cacciari quando, con la giusta idea che non vi sia più tempo per restare vincolati ai tempi lenti e elitari del proprio argomentare, si fanno finalmente consci dell’urgenza di dire il necessario rinunciando all’ordito complesso dei propri saperi libreschi, delle loro spirali senza fine. Si tratta di tre passaggi chiave.
Primo passaggio. Lungo l’intero processo di modernizzazione della civiltà occidentale, le forme di sapere applicato, strumentale e decisionale si sono abilmente costruite nel tempo e nello spazio grazie alla straordinaria capacità dialettica dei loro sistemi di appartenenza – di potere e governo – nel ricavare i propri anticorpi dai collassi e dalle catastrofi prodotte o incidentalmente incontrate di volta in volta nel loro percorso. Tuttavia, lungo la linea di sviluppo della società industriale, sin dal suo procedere otto-novecentesco, l’intelligenza della volontà di potenza delle magnifiche sorti di tali sistemi economico-politici ha abbattuto ogni ostacolo che rischiasse di frenarla. Ha rimosso, eluso e scavalcato i margini di pensiero critico via via emergenti in opposizione o quantomeno netto contrasto con le proprie ideologie e strategie. Le ha rese sempre di nuovo vincenti in virtù della immodificabile coerenza dei propri obiettivi.
Secondo passaggio. Prodotto di forme relativamente “autonome” di lavoro intellettuale assai più che di apparati e istituzioni, la cultura alta è vissuta (forse non poco paradossalmente, ancora vive) nell’ambizione di sapere scavare in profondità – dall’alto verso il basso, ovvero là dove più tramestano le tattiche del potere – dentro le forme di vita del mondo (il loro passato, il loro presente e il loro destino). Dunque, sono stati molti autori a pensare e scrivere nella convinzione (divenuta una vera e propria tradizione culturale giunta sino ai nostri giorni) che la modernità – in ogni sua prospettiva passata, presente e postuma – fosse arrivata al proprio limite estremo. E in questo fallo fosse precipitata a seguito della ingannevole qualità dei suoi stessi fondamenti. Molti sono stati gli scrittori convinti che già fossero cadute le sue speranze. Già fallito in anticipo il suo futuro. E dunque certi che della civilizzazione moderna andasse spezzata la sua progressione lineare, tanto più determinata, nella sua perversione, quanto più perseguita come sistematico, ovvero strategico, assoggettamento del mondo.
Assoggettamento ai propri fini anche per mezzo della sua secolare quanto vana, illusoria, catena di crisi e catastrofi. E di tante azioni e controazioni sociali, restaurazioni, rivoluzioni e movimenti: tutti conflitti dovuti all’avvicendarsi di diversi soggetti di volta in volta e di luogo in luogo socialmente emergenti nella storia dei sistemi di vita occidentali. Questo succedersi di regimi tradizionali è accaduto sino al crollo del muro di Berlino, per trapassare poi nella incoerente e insieme coerente pluralità dei regimi pre-democratici, democratici o post-democratici o anti-democratici, progressivamente sempre più determinati dalle aumentate strategie politico-finanziarie della globalizzazione.
Terzo passaggio. Questa vicenda, da me qui accennata solo per grandissime linee, arriva al culmine di una vicenda assai più estesa nel tempo: la lunghissima durata dei processi di civilizzazione che, dal mondo greco-romano e dalle culture giudaico-cristiane, arriva alla modernità, passando via via per le nuove forme, sempre più accentuate, di disincanto e mondanizzazione della società attivate dall’umanesimo, dall’illuminismo e dal romanticismo in avanti. Questa è la lunga genesi del soggetto moderno e della sovranità del suo pensiero e delle sue azioni. Le invenzioni religiose, in particolare quella insorta con lo stato nascente del cristianesimo, avevano a loro modo individuato nella singola persona il possibile punto di fuga – di deviazione – dalle forme di sovranità terrene. Fu questo il nodo della crisi di potere dell’Impero Romano.
Ma questo clamoroso passaggio fu una operazione praticabile e praticata in virtù del fatto di contrapporre, ai soggetti e alle forme di potere temporale sugli abitanti della terra, il potere unificante, eterno e universale, di un Dio dei Cieli. È qui il modello ideale, irriducibile, dello snodo socioculturale progressivamente realizzato nel tempo moderno come dominio assoluto del soggetto storico della civilizzazione occidentale sulla vita quotidiana di ogni relazione mondana. E dunque di ogni persona.
Proprio tale assoggettamento dei singoli sotto il manto di una volontà superiore a ciascuno di essi e alla loro somma – attraverso legami culturali che li saldano in un solo sistema servo-padrone – ha fatto sì che, al pensiero umano di chi debba o voglia esprimersi sul mondo in cui abita, accada di potere riuscire a farlo nell’automatica illusione di parlare e scrivere a proprio nome, in nome della propria singola persona, invece che imprigionato nella permanente costrizione identitaria della prima persona plurale. Del Noi.
Dai tre passaggi elencati, per quanto espressi in modo così elementare e approssimativo (purtuttavia approssimazione non significa solo imprecisione ma anche tentativo di semplificazione e avvicinamento), credo si possa ricavare la necessità, fattasi ora così urgente, radicale, di spostare la prospettiva verso cui dovere orientarsi, attivare la propria vita. Di lanciarla finalmente al di là della sovrana violenza del noi – fuori dalla sua ingiustizia e sostanziale “falsa coscienza” – per polarizzare invece il discorso sulla singola persona. Una scelta paradossale, contro-senso, ma almeno interiormente percepibile e sensibile in quanto intima rivolta della persona – la sua voce interiore – contro le regole della grammatica. Tanto più tenendo conto che, nel frattempo del nostro presente, sono sopravvenuti due clamorosi fattori innovativi, in grado di facilitare l’impresa.
Il primo fattore è costituito dall’incremento esponenziale delle relazioni di rete che ha clamorosamente sempre più affermato e insieme rafforzato il peso di forme relazionali di comunicazione accentuatamente personali. Piattaforme espressive nelle quali il noi perde terreno rispetto alle prime e seconde persone singolari o si fa espressione tribale. Il secondo fattore: qui e ora a farsi possibile terreno di coltura è soprattutto la catastrofe virale che ha rapidamente devastato ogni genere di socialità ordinaria quanto straordinaria dell’abitare. Cerchiamo allora di capire qualcosa di questi fattori di mutamento.
Il regime di paura imposto dalla natura vivente ma non umana del coronavirus – paura individuale di essere a rischio minuto per minuto, ammalarsi, soffrire, morire o vedere e vedersi morire in solitudine, crollare le proprie fortune e i propri beni – certamente non sta liberando i soggetti sociali dai propri vincoli di status e di ruolo. Anzi essi sono costretti – per deontologia e obbligo civile, per interesse o per forza, per scelta o imposizione – a farsene carico meglio o peggio ma comunque come e più di prima. In ogni caso, tuttavia, il noi è qui percepito, risentito, come dilemma e stato d’eccezione.
Di certo non si può davvero parlare di una qualche coscienza di liberazione della persona dal proprio vincolo sociale neppure laddove si tratti di individui poveri e disagiati, in condizione di bruta sofferenza quotidiana. Tuttavia, il virus, in tutta la sua brutale evidenza, sopraggiunge su di loro facendo mostra delle stesse sembianze, ma esasperate, della natura mortifera o ingiustamente vivicatrice della società. Drammaticamente costretti a pensare alla sopravvivenza della propria persona, della propria nuda vita, essi si percepiscono dipendenti, quanto mai prima, da decisioni legislative e amministrative, politiche e economiche, persino umanitarie, che li rendono più che mai consapevoli di essere in tutto vincolati agli armamentari del noi invece che a se stessi. Assolutamente dipendenti da un destino da cui si sentono estranei.
In tutti – siano essi cittadini gettati in situazioni di emergenza oppure, e tanto più, individui reclusi e abbandonati dalla società civile, dalla cittadinanza – domina il senso comune, plurale e interclassista, della sola verità immediata, senza necessità di dimostrazione, costituita dal picco di dolore psicofisico e paura della morte che il corpo umano subisce ad opera di una violenza sovrana e spietata. Scatta allora con altrettanta violenza, in modo consapevole e per nulla inconscio, il desiderio di sopravvivenza della singola persona quale sia la sua identità, l’identità che gli è toccata di vivere nel mondo. Si tratta dunque di una dimensione in cui a sentire e darsi voce non è il noi che parla per tutti e ritiene scontato di dovere essere ascoltato da tutti, dagli altri e dall’altro, come se al posto della sua ci fosse la loro voce. Ma è la persona che parla a se stessa per se stessa.
Qui, emergendo come da una voragine, appare una verità che si motiva non nel dovere credere in una costruzione ideologica, in un dio onnivoro, terreno o celeste che sia, ma si motiva invece nella assoluta discontinuità, lacerazione, di un sentire immediato che agisce per mezzo della sofferenza e della paura di soffrire. Sentire soffrire la propria carne. In questo evento la esclusiva percezione di sé in quanto carne a rischio di dolore e morte si oppone al noi della falsa coscienza universalista del Grande Leviatano: sovranità di un desiderio di potenza della natura umana che, per affermarsi e rendersi manifesta, s’è presa a carico lo stato di necessità delle singole persone, immerse una a una nel suo incommensurabile corpo. Nel debito inestinguibile della sua ospitalità. Nella storica drammaturgia occidentale tra immanenza e trascendenza.
Contro il futuro del presente Patti chiari: nessuna di queste mie considerazioni intende negare la necessità di usare qui e ora ogni scienza e tecnica possibile per arrestare la natura mortifera del Covid-19. Cadrei nella svista contro-concentrazionaria di Giorgio Agamben e di conseguenza dovrei scivolare nelle vecchie mistiche teologico-politiche del Vuoto. E ancora: non mi sogno di attribuire nessuna validità etica all’emergere, pur istintivamente motivato, della natura egoistica, dunque per nulla sociale, della persona che teme per la propria vita e per le sofferenze della sua carne. Gli americani son corsi a comprare armi per difendersi dal cortocircuito tra paura e violenza: forse anche perché storicamente afflitti dalla sindrome amico-nemico proprio in quanto cittadini del Nuovo Mondo, per eccellenza Mondo Moderno.
Infine: ora non ho nulla contro il risuonare dalle finestre di inni risorgimentali o canzoni d’amore o rimembranze poetiche: sono segnali comunitari di speranza che valgono come una medicina, un “calmante” (almeno sino a quando di tale medicina non si scoprirà il pericoloso, illusorio, effetto placebo o gli sconosciuti danni collaterali). Ho voluto scrivere questo articolo nel tentativo di spiegare perché ritengo che, alla ideologia moderna fondata sulla estrema pericolosità della persona socialmente non inquadrata dal/nel soggetto civile, le sue istituzioni e le sue politiche, sia necessario contrapporre e valorizzare il reale che sta implodendo nella crisi umana e sociale forse più grande e tragica dell’Occidente dopo le immani catastrofi del Novecento.
E dunque sia necessario ribaltare di netto, o quanto più possibile, il paradigma (la mentalità) occidentale. Provare a fare sì che non sia il soggetto della tradizione moderna a dovere farsi carico della persona ma questa a trovare la capacità di modificare quanto più possibile i contenuti, i modi e le forme, del soggetto. Tanto quanto quella parte di sé che lo sostiene condividendone e subendone gli stessi appetiti. Un obiettivo, questo, che richiede non una palingenesi immediata – impossibile proprio a causa dello stato di necessità e di sopravvivenza che lega tra loro persona e soggetto – ma tempi assai lunghi di interazione reciproca tra i due opposti fronti. Tra i dispositivi in uso nel sapere pensare del soggetto moderno (ma finalmente disposto, determinato a modificare i propri paradigmi) e i contenuti della persona in quanto oggettiva capacità di sentire le afflizioni del potere sulla propria carne.
Un volenteroso avvio in questa direzione potrebbe consentire la nascente percezione di quanto proprio l’incredibile salto in avanti del pensiero tecno-scientifico rispetto a quello delle scienze umane abbia eclissato il reciproco rapporto tra vocazione e professione che fu alla base della civiltà industriale e che s’è infranto con l’infrangersi del capitalismo storico e delle sue funzioni e persino finzioni. Una catastrofe inascoltata da vari decenni da tutti i ceti dirigenti. Dunque ci sarebbe ora molto da lavorare su vocazioni diverse, mai ancora praticate. E la vocazione è il linguaggio della persona.
Non mancano segnali. Un esempio cruciale: registrato il fallimento di ogni riforma universitaria – diretta causa del corrispettivo fallimento delle classi dirigenti a ragione della progressiva obsolescenza dei loro valori e insieme delle loro capacità – sta finalmente insorgendo, per quanto in certa misura ancora assai debole, l’idea di ridisegnare radicalmente i modelli formativi. A partire dalla vocazione invece che dai precetti della professione: da una solidarietà non socialmente, politicamente, imposta, ma personalmente vissuta, senza la quale non c’è possibilità alcuna di vedere nascere ceti dirigenti davvero capaci di sapere governare sui confitti di potere del mondo. Dunque anche sulla propria persona.
E allora. Certo che voi ed io sentiamo parimenti l’angoscia che monta con l’incancrenirsi del male virale, e insieme ne temiamo le conseguenze per noi stessi e per gli altri: morte e dolore. E, imminente, un’epoca di terribili carestie. Ma – sfruttando la possibilità che la scrittura ci offre nel mettersi a distanza critica dalle nostre emozioni – per me sono da preferire i messaggi capaci di cogliere cosa e perché non potrà essere mai più come prima… e come questa consapevolezza dovrà essere diversa da quella di ogni guerra e dopo-guerra del passato. O meglio: non potrebbe e non dovrebbe. Questo perché sarebbe grave che si ripetesse il tradizionale vincolo storico-culturale-sociale tra distruzione e ricostruzione: cioè l’idea che, per ricostruire, sia scontato accettare di tornare ai valori correnti in tempo di pace. Questi valori non sono forse gli stessi – le stesse distrazioni e rimozioni e presunzioni di giustizia – dei regimi carcerari? Se dunque si tornasse a pensare a semplici restauri o riforme, significherebbe che il futuro – immaginato e creduto salvifico – è invece già qui… nel tempo presente del coronavirus.
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