Dai tre passaggi elencati, per quanto espressi in modo così elementare e approssimativo (purtuttavia approssimazione non significa solo imprecisione ma anche tentativo di semplificazione e avvicinamento), credo si possa ricavare la necessità, fattasi ora così urgente, radicale, di spostare la prospettiva verso cui dovere orientarsi, attivare la propria vita. Di lanciarla finalmente al di là della sovrana violenza del noi – fuori dalla sua ingiustizia e sostanziale “falsa coscienza” – per polarizzare invece il discorso sulla singola persona. Una scelta paradossale, contro-senso, ma almeno interiormente percepibile e sensibile in quanto intima rivolta della persona – la sua voce interiore – contro le regole della grammatica. Tanto più tenendo conto che, nel frattempo del nostro presente, sono sopravvenuti due clamorosi fattori innovativi, in grado di facilitare l’impresa.

Il primo fattore è costituito dall’incremento esponenziale delle relazioni di rete che ha clamorosamente sempre più affermato e insieme rafforzato il peso di forme relazionali di comunicazione accentuatamente personali. Piattaforme espressive nelle quali il noi perde terreno rispetto alle prime e seconde persone singolari o si fa espressione tribale. Il secondo fattore: qui e ora a farsi possibile terreno di coltura è soprattutto la catastrofe virale che ha rapidamente devastato ogni genere di socialità ordinaria quanto straordinaria dell’abitare. Cerchiamo allora di capire qualcosa di questi fattori di mutamento.

Il regime di paura imposto dalla natura vivente ma non umana del coronavirus – paura individuale di essere a rischio minuto per minuto, ammalarsi, soffrire, morire o vedere e vedersi morire in solitudine, crollare le proprie fortune e i propri beni – certamente non sta liberando i soggetti sociali dai propri vincoli di status e di ruolo. Anzi essi sono costretti – per deontologia e obbligo civile, per interesse o per forza, per scelta o imposizione – a farsene carico meglio o peggio ma comunque come e più di prima. In ogni caso, tuttavia, il noi è qui percepito, risentito, come dilemma e stato d’eccezione.

Di certo non si può davvero parlare di una qualche coscienza di liberazione della persona dal proprio vincolo sociale neppure laddove si tratti di individui poveri e disagiati, in condizione di bruta sofferenza quotidiana. Tuttavia, il virus, in tutta la sua brutale evidenza, sopraggiunge su di loro facendo mostra delle stesse sembianze, ma esasperate, della natura mortifera o ingiustamente vivicatrice della società. Drammaticamente costretti a pensare alla sopravvivenza della propria persona, della propria nuda vita, essi si percepiscono dipendenti, quanto mai prima, da decisioni legislative e amministrative, politiche e economiche, persino umanitarie, che li rendono più che mai consapevoli di essere in tutto vincolati agli armamentari del noi invece che a se stessi. Assolutamente dipendenti da un destino da cui si sentono estranei.

In tutti – siano essi cittadini gettati in situazioni di emergenza oppure, e tanto più, individui reclusi e abbandonati dalla società civile, dalla cittadinanza – domina il senso comune, plurale e interclassista, della sola verità immediata, senza necessità di dimostrazione, costituita dal picco di dolore psicofisico e paura della morte che il corpo umano subisce ad opera di una violenza sovrana e spietata. Scatta allora con altrettanta violenza, in modo consapevole e per nulla inconscio, il desiderio di sopravvivenza della singola persona quale sia la sua identità, l’identità che gli è toccata di vivere nel mondo. Si tratta dunque di una dimensione in cui a sentire e darsi voce non è il noi che parla per tutti e ritiene scontato di dovere essere ascoltato da tutti, dagli altri e dall’altro, come se al posto della sua ci fosse la loro voce. Ma è la persona che parla a se stessa per se stessa.

Qui, emergendo come da una voragine, appare una verità che si motiva non nel dovere credere in una costruzione ideologica, in un dio onnivoro, terreno o celeste che sia, ma si motiva invece nella assoluta discontinuità, lacerazione, di un sentire immediato che agisce per mezzo della sofferenza e della paura di soffrire. Sentire soffrire la propria carne. In questo evento la esclusiva percezione di sé in quanto carne a rischio di dolore e morte si oppone al noi della falsa coscienza universalista del Grande Leviatano: sovranità di un desiderio di potenza della natura umana che, per affermarsi e rendersi manifesta, s’è presa a carico lo stato di necessità delle singole persone, immerse una a una nel suo incommensurabile corpo. Nel debito inestinguibile della sua ospitalità. Nella storica drammaturgia occidentale tra immanenza e trascendenza.

Contro il futuro del presente
Patti chiari: nessuna di queste mie considerazioni intende negare la necessità di usare qui e ora ogni scienza e tecnica possibile per arrestare la natura mortifera del Covid-19. Cadrei nella svista contro-concentrazionaria di Giorgio Agamben e di conseguenza dovrei scivolare nelle vecchie mistiche teologico-politiche del Vuoto. E ancora: non mi sogno di attribuire nessuna validità etica all’emergere, pur istintivamente motivato, della natura egoistica, dunque per nulla sociale, della persona che teme per la propria vita e per le sofferenze della sua carne. Gli americani son corsi a comprare armi per difendersi dal cortocircuito tra paura e violenza: forse anche perché storicamente afflitti dalla sindrome amico-nemico proprio in quanto cittadini del Nuovo Mondo, per eccellenza Mondo Moderno.

Infine: ora non ho nulla contro il risuonare dalle finestre di inni risorgimentali o canzoni d’amore o rimembranze poetiche: sono segnali comunitari di speranza che valgono come una medicina, un “calmante” (almeno sino a quando di tale medicina non si scoprirà il pericoloso, illusorio, effetto placebo o gli sconosciuti danni collaterali).  Ho voluto scrivere questo articolo nel tentativo di spiegare perché ritengo che, alla ideologia moderna fondata sulla estrema pericolosità della persona socialmente non inquadrata dal/nel soggetto civile, le sue istituzioni e le sue politiche, sia necessario contrapporre e valorizzare il reale che sta implodendo nella crisi umana e sociale forse più grande e tragica dell’Occidente dopo le immani catastrofi del Novecento.

E dunque sia necessario ribaltare di netto, o quanto più possibile, il paradigma (la mentalità) occidentale. Provare a fare sì che non sia il soggetto della tradizione moderna a dovere farsi carico della persona ma questa a trovare la capacità di modificare quanto più possibile i contenuti, i modi e le forme, del soggetto. Tanto quanto quella parte di sé che lo sostiene condividendone e subendone gli stessi appetiti. Un obiettivo, questo, che richiede non una palingenesi immediata – impossibile proprio a causa dello stato di necessità e di sopravvivenza che lega tra loro persona e soggetto – ma tempi assai lunghi di interazione reciproca tra i due opposti fronti. Tra i dispositivi in uso nel sapere pensare del soggetto moderno (ma finalmente disposto, determinato a modificare i propri paradigmi) e i contenuti della persona in quanto oggettiva capacità di sentire le afflizioni del potere sulla propria carne.

Un volenteroso avvio in questa direzione potrebbe consentire la nascente percezione di quanto proprio l’incredibile salto in avanti del pensiero tecno-scientifico rispetto a quello delle scienze umane abbia eclissato il reciproco rapporto tra vocazione e professione che fu alla base della civiltà industriale e che s’è infranto con l’infrangersi del capitalismo storico e delle sue funzioni e persino finzioni. Una catastrofe inascoltata da vari decenni da tutti i ceti dirigenti. Dunque ci sarebbe ora molto da lavorare su vocazioni diverse, mai ancora praticate. E la vocazione è il linguaggio della persona.

Non mancano segnali. Un esempio cruciale: registrato il fallimento di ogni riforma universitaria – diretta causa del corrispettivo fallimento delle classi dirigenti a ragione della progressiva obsolescenza dei loro valori e insieme delle loro capacità – sta finalmente insorgendo, per quanto in certa misura ancora assai debole, l’idea di ridisegnare radicalmente i modelli formativi. A partire dalla vocazione invece che dai precetti della professione: da una solidarietà non socialmente, politicamente, imposta, ma personalmente vissuta, senza la quale non c’è possibilità alcuna di vedere nascere ceti dirigenti davvero capaci di sapere governare sui confitti di potere del mondo. Dunque anche sulla propria persona.

E allora. Certo che voi ed io sentiamo parimenti l’angoscia che monta con l’incancrenirsi del male virale, e insieme ne temiamo le conseguenze per noi stessi e per gli altri: morte e dolore. E, imminente, un’epoca di terribili carestie. Ma – sfruttando la possibilità che la scrittura ci offre nel mettersi a distanza critica dalle nostre emozioni – per me sono da preferire i messaggi capaci di cogliere cosa e perché non potrà essere mai più come prima… e come questa consapevolezza dovrà essere diversa da quella di ogni guerra e dopo-guerra del passato. O meglio: non potrebbe e non dovrebbe. Questo perché sarebbe grave che si ripetesse il tradizionale vincolo storico-culturale-sociale tra distruzione e ricostruzione: cioè l’idea che, per ricostruire, sia scontato accettare di tornare ai valori correnti in tempo di pace. Questi valori non sono forse gli stessi – le stesse distrazioni e rimozioni e presunzioni di giustizia – dei regimi carcerari? Se dunque si tornasse a pensare a semplici restauri o riforme, significherebbe che il futuro – immaginato e creduto salvifico – è invece già qui… nel tempo presente del coronavirus.