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LA TRATTATIVA STATO MAFIA
Venerdì 20 Novembre 2020 09:55

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GENTILISSIME/I,

All'appuntamento del mercoledì su La7, Andrea Purgatori ha raccontato del processo in appello per la trattativa Stato-mafia, un nuovo pentito, il secondo Buscetta sta rendento testistimonianza sui legami di pezzi dello Stato, carabinieri, polizia, servizi deviati, massoneria. Stragi di Stato, da Piazza Fontana all' ultima stagione. La testimonianza del giornalista Saverio Lodato, la memoria storica di 150 anni di mafia in Sicilia.

Come associazione riuscimmo a portare a Bari, al Liceo Fermi, il Procuratore Generale di Palermo, Roberto Scarpinato, per la presentazione del libro il Principe, scritto con il giornalista Saverio Lodato.

Abbiamo lavorato tantissimo nelle scuole, abbiamo fatto pressione sulle istituzioni, non ci siamo mai arresi, la politica purtroppo dopo la morte di Berliguer e Moro, ha guardato in altre direzioni, facendosi complice di una macelleria di uomini e donne senza fine.

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ENTITA’ ESTERNE. La latitanza di Matteo Messina Denaro, gli attentati del ’93-’94, l’“omicidio-suicidio” di Gioè e l’assassinio di Luigi Ilardo: solo alcuni dei punti oscuri della Trattativa, sui quali si valuterà l’attendibilità delle recenti testimonianze del pentito Pietro Riggio. Rivelazioni sconvolgenti o ennesimo depistaggio?

La trattativa è ancora aperta. Lo Stato ne è parte insieme a Cosa Nostra. Ed oltre all’obiettivo di realizzare lo storico papello di Totò Riina e di insabbiare tutto ciò ch’è successo tra ’92 e ’94, vi sarebbe anche quello di garantire la latitanza di Matteo Messina Denaro: per questo resta sempre attuale il rischio di un ritorno di Cosa Nostra alla strategia stragista.

Il processo sulla Trattativa Stato-Mafia prosegue davanti alla Corte d’Assise d’appello di Palermo, dove a parlare è adesso un “nuovo” (sebbene lo sia dal 2008) collaboratore di giustizia: Pietro Riggio.

Ex poliziotto penitenziario affiliato alle cosche mafiose, nel 2018 ha cominciato a rilasciare dichiarazioni su alcuni dei capitoli più oscuri della Trattativa e delle stragi. Dichiarazioni su cui stanno indagando cinque Procure.

Ha deciso di parlare nonostante le pressioni subite da certi “uomini dello Stato” tese a impedirgli di aprire la bocca. Ma, ora che l’ha aperta, la bocca non gliela chiude più nessuno. Nella puntata della trasmissione Atlantide andata in onda ieri su La7, con la conduzione di Andrea Purgatori, si sono ripercorsi alcuni estratti delle dichiarazioni di Riggio messe a verbale durante le ultime udienze del processo di Palermo tra il 19 e il 26 ottobre. La domanda, ovviamente, sorge spontanea: siamo per caso di fronte a un nuovo Tommaso Buscetta? Oppure si tratta di una fonte inattendibile? Ma soprattutto - aggiungiamo noi - dopo l’esperienza dei quattro processi sulla strage di via d’Amelio, ci potrebbe essere il rischio di un nuovo depistaggio? Molti sono i punti controversi.

Un dato è certo, però. E riguarda proprio il periodo buio delle stragi e di quel che c’è stato “dopo”. Lo ricorda Saverio Lodato, giornalista di lungo corso che ha seguito come inviato dell’Unità a Palermo tutti i maggiori processi a Cosa Nostra, tra i primi ospiti a intervenire durante la puntata. Con tutti i mezzi tecnologici di cui disponiamo, con le intercettazioni 24 ore su 24, con i droni e i sistemi di localizzazione in tempo reale è impensabile che l’ultimo capo dei capi Matteo Messina Denaro sia riuscito per 28 anni a rimanere a piede libero senza la protezione di qualche soggetto interno alle istituzioni. Fa ancora comodo sapere che il boss di Castelvetrano, condannato in via definitiva per le stragi del ’93 e in primo grado per le stragi del ‘92 di Capaci e di via D’Amelio, si sia reso introvabile grazie all’aiuto di familiari e conoscenti, confidenti e teste di legno, i quali sono stati tutti arrestati, assicurati alla giustizia o comunque messi sotto torchio. Non c’è più nessuno dei suoi sodali che possa aiutarlo. Solo certi pezzi deviati dello Stato possono volere che si continui a raccontare la «favoletta» secondo cui Cosa Nostra avrebbe «fatto tutto da sola», stragi incluse.

La sua latitanza fa parte con tutta evidenza di un disegno più ampio. Per eseguire il quale non bisogna credere che U Siccu Messina Denaro, magari su ordine di qualche «mandante esterno», non sia disposto a replicare la stagione delle stragi. Ne è riprova la deposizione di Vito Galatolo sui 150 kg di tritolo (mai ritrovati) che alcuni esponenti di spicco di Cosa Nostra avrebbero deliberato - su richiesta dell’invisibile Messina Denaro - di far arrivare a Palermo dalla Calabria per un attentato ai danni del pm Nino Di Matteo (che compare, nel corso della puntata, in un’intervista rilasciata sempre ad Atlantide). Decisione che si sarebbe presa nel corso di un summit presso un appartamento di Ballarò messo a disposizione da Alfredo Geraci (che non vi partecipò, ma ne seppe dal boss Alessandro D’Ambrogio).

Trattativa è quella che si intravede nelle stragi di Roma, Firenze e Milano del ’93. Nino Di Matteo lo dice chiaramente: troppe le «anomalie», troppe le spie di una probabile compartecipazione alla strategia da parte di «organi e soggetti diversi da Cosa Nostra». Tra queste, il fatto stesso che furono stragi compiute sul “continente” (a differenza di Capaci e via d’Amelio) e che si accettò l’eventualità che gli attentati facessero vittime anche fra «cittadini inermi». Un modus operandi, quindi, del tutto estraneo a Cosa Nostra, che al solito individua con precisione i «nemici» che intende colpire.

C’è poi l’anomalia delle lettere inviate da Gaspare Spatuzza poco prima degli attentati del 28 e 29 luglio alla redazione romana di Corriere della Sera e Ansa. Lettere che recano la firma “Falange armata”.

Scritte con un «linguaggio forbito», espressione di una «capacità culturale» estranea alla mentalità mafiosa. Concepita invece, secondo i giudici della sentenza di primo grado, con tutta probabilità negli ambienti dei Servizi Segreti.

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«Erano gli stessi mafiosi - afferma Di Matteo - gli stessi assassini che giravano l’Italia per andare a mettere le bombe, che percepivano l’anomalia». Come al tempo del fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994: in quell’occasione Spatuzza avrebbe chiesto al suo capo Giuseppe Graviano perché si stesse facendo “tutto questo”: «Ci stiamo portando appresso dei morti che non ci appartengono». La risposta fu secca: «Tu ne capisci di politica?» No. «E allora fidati di me: dobbiamo fare questi attentati perché chi si deve dare una mossa si dia effettivamente una mossa. E vedrai che queste bombe porteranno grandi benefici a tutta Cosa Nostra».

Se fosse andato a segno l’attentato all’Olimpico (in cui sarebbero morte centinaia tra uomini delle forze dell’ordine e cittadini che assistevano alla partita), secondo il dott. Di Matteo «lo Stato sarebbe stato messo in ginocchio definitivamente».

Le rivelazioni di Riggio nel processo di appello sulla Trattativa sembrerebbero deporre in questo senso: il modus operandi dietro le stragi del ’93 e ’94 non è quello tipico di Cosa Nostra. Anzi, sarebbe stato Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, a suggerire i luoghi dove consumare gli attentati: via Palestro, via dei Georgofili, San Giovanni in Laterano, San Giorgio al Velabro.

Luoghi-simbolo del patrimonio artistico e culturale d’Italia. L’attacco frontale alle istituzioni raggiunge l’ennesima potenza. Se effettivamente le cose stanno così, spetterà ai magistrati valutarlo. Ciò sempre nell’ottica di evitare che Riggio si riveli a posteriori come un novello Scarantino destinato a mandare a carte quarantotto anche questo processo.

Trattativa è anche quella va di pari passo con misteriosi “omicidi-suicidi”, come quelli di Attilio Manca (nella foto in alto) l’urologo siciliano che ha operato Provenzano, o di Antonino Gioè, boss di Altofonte.

Su Gioè, ritrovato impiccato con i lacci delle scarpe nella cella in cui era detenuto al carcere di Rebibbia il 29 luglio 1993, Riggio fa delle rivelazioni agghiaccianti: «Tutti sapevano che non si era suicidato. Mi racconta Di Modugno (Gianfranco, collega di Riggio nel corpo di polizia penitenziaria, ndr) che Gioè, il giorno in cui decise di voler collaborare, aveva fatto una lettera. Non la lettera che fu ritrovata, ma un'altra ben precisa in cui accusava e faceva dei nomi; dove parlava di stragi e dei contatti con servizi segreti con cui lui aveva avuto a che fare».

E riferisce di certi uomini, una squadra di agenti di polizia penitenziaria (quindi servitori dello Stato) i quali entravano di notte mascherati, quando tutto il personale era stato fatto uscire, e per minacciare o indurre qualcuno a confessare ricorrevano al cosiddetto ‘metodo della scala’: uno saliva a tre a tre degli scalini mentre con un cappio strozzava il detenuto, e intanto un altro lo prendeva a pugni nel costato. «Questi erano i metodi da Gestapo usati in quel periodo».

Trattativa è quella che traspare dalle confidenze che il poliziotto e collaboratore del Sisde Giovanni Peluso avrebbe fatto a Riggio - e da questi riferite in aula - sulle modalità di preparazione ed esecuzione della strage di Capaci. Sul fatto che fosse stato riempito il canale di scolo con l’esplosivo attraverso degli skateboard. E che, in generale, «c’erano persone estranee a Cosa Nostra» dietro l’attentato. Ma soprattutto, una frase di Peluso rimasta particolarmente impressa a Riggio, che fa mettere a verbale nel processo: «Ancora Giovanni Brusca è convinto che il pulsante lo ha premuto lui».

Trattativa è quella che emerge dall’omicidio di Luigi Ilardo, nel 1993 divenuto confidente del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio. Ilardo, cugino di Piddu Madonia, alle spalle decenni di affiliazione a Cosa nostra, contribuisce come infiltrato dello Stato all’interno dell’organizzazione all’arresto di sette boss e di una cinquantina di altri mafiosi. È grazie a lui che nell’ottobre 1995 i carabinieri individuano il casolare di Mezzojuso dov’è rifugiato Bernardo Provenzano. Ma, a un passo dall’arresto del superlatitante, il comandante del Ros Mario Mori ferma l’operazione (accusato per questo di favoreggiamento, sarebbe stato assolto insieme al colonnello Mauro Obinu).

A sapere del suo proposito di diventare a tutti gli effetti collaboratore di giustizia - ricorda la figlia Luana Ilardo, anche lei ospite ad Atlantide - erano solo tre persone: l’allora procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli, la sua sostituta Maria Teresa Principato e il procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Viene pure convocato per un incontro con i vertici del Sisde: fra questi è presente lo stesso comandante Mario Mori.

Il 10 maggio 1996 - quattro giorni prima che le sue dichiarazioni potessero essere messe a verbale ed entrare nel programma di protezione per i pentiti - Ilardo viene ucciso sotto la propria casa da uomini di Cosa nostra. Questi ultimi sono adesso ergastolani condannati in via definitiva. Ancora avvolti nel mistero invece i nomi di chi, tra i pochi soggetti all’interno delle istituzioni informati dell’intenzione di Ilardo di formalizzare la propria collaborazione, fece trapelare la notizia al di fuori di quell’ambiente.

Erroneo sarebbe dunque ritenere estranei al vasto disegno omicidiario di Cosa nostra, pezzi deviati dello Stato e dei Servizi Segreti. I quali con Cosa nostra hanno trattato. Ed hanno ottenuto l’effetto di far aumentare (anziché fermare) delitti e stragi mafiose. E così sarà finché i mandanti istituzionali non verranno individuati e puniti e i depistatori allontanati.

Solo quando lo Stato avrà cessato di prestare il fianco alle minacce mafiose, potremo dire di aver seriamente sventato il pericolo di un nuovo attacco frontale di Cosa Nostra alle istituzioni.

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Giovanni Falcone, Lodato su La7: “Nel 1989 mi fece il nome di Bruno Contrada”. L’avvocato: “Chieda scusa, mio assistito è oggi incensurato.

“Dopo il fallito attentato a l’Addaura, quando addirittura circolano voci che addirittura se lo sia organizzato da solo, Giovanni Falcone chiese di incontrarmi. Mi disse di avere finalmente capito che dietro a Cosa Nostra c’erano ‘menti raffinatissime’ che guidavano il gioco della mafia“. Lo ha detto durante una puntata di “Atlantide”, il programma condotto da Andrea Purgatori su La7, il giornalista Saverio Lodato, che intervistò il magistrato Giovanni Falcone per l‘Unità all’indomani dell’attentato dell’Addaura, avvenuto il 21 giugno 1989.

Mafia, Nicosia intercettato: “La morte di Falcone e Borsellino? Un incidente sul lavoro. All’aeroporto di Palermo va cambiato nome”

Poi rivela: “Chiesi a Falcone quei nomi. Fui molto insistente, anzi incalzai su quei nomi. Falcone parlava al plurale con la consapevolezza del fatto che si trovava invischiato in un grande capitolo di quella che era e poi sarebbe diventata pubblicamente la trattativa Stato-mafia. Mi fece il nome del dottor Bruno Contrada, ma mi diffidò dallo scriverlo e mi disse: ‘Se tu scrivi il nome di Bruno Contrada, dicendo che è un personaggio di cui io non ho grande stima e grande fiducia, tu con me non avrai più alcun tipo di rapporto”.

In diretta arriva la chiamata dell’avvocato Stefano Giordano, legale di Contrada: “Il mio cliente è incensurato, si deve chiedere scusa al mio assistito”. Il riferimento del legale è per la sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo del 2015 secondo la quale Contrada non doveva essere né processato né condannato perché all’epoca dei fatti a lui contestati – gli anni Ottanta – il reato di concorso in associazione mafiosa non era “chiaro, né prevedibile”. Il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato a favore dell’ex 007 Bruno Contrada la somma di 667mila euro a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione patita nel procedimento penale. “Ieri sera sono stato diffamato e calunniato. Provo solo disprezzo e nient’altro. Devono trovare un colpevole ad ogni costo, e lo hanno trovato in me. Non si rassegnano. Ma io non ci sto. Basta. Denuncio tutti“, ha detto oggi l’ex superpoliziotto.

In realtà la sentenza della Cedu non entra nel merito dei fatti contestati a Contrada ma si limita a dire che all’ex numero 3 del Sisde veniva contestato un reato non esistente all’epoca dei fatti. In chiusura di puntata Lodato ha telefonato alla trasmissione per replicare all’avvocato Giordano e sottolineare che “quando Giovanni Falcone mi disse quelle cose era il 1989. Bruno Contrada non era neanche sotto inchiesta per mafia. Non era arrivata a sentenza definitiva di Cassazione la sentenza di sua colpevolezza. Non c’era neanche la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che recepisce le indicazione della Corte Europea. Io prendo atto di quello che dice l’avvocato Giordano. Afferma che il suo cliente è innocente, ma devo dirgli che il giudizio di Giovanni Falcone nei confronti di Bruno Contrada non era lusinghiero. Tutt’altro. Questo mi ricorreva l’obbligo di dire e confermare”.

Scritto da Andrea Purgatori la7   
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