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Una delle parole che più viene spesa
Venerdì 11 Dicembre 2020 11:56

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Una delle parole che più viene spesa, in questo periodo pandemico e emergenziale, è sicuramente “cambiamento”. Il coronavirus chi ha cambiato la vita, dovremo cambiare le nostre abitudini, c’è la necessità di un cambiamento dei nostri stili di vita, niente sarà come prima e tutto cambierà, eccetera.

Ok, tutto giusto, tutto comprensibile.

Ma cosa vogliamo intendere, poi, con la parola “cambiamento”?

 

Ci sto pensando di frequente, in questi giorni, leggendo appunto un po’ ovunque di questi inviti o di intenti sul cambiare, e mi pare che, a fronte di quanto sia invocata la parola con tutti i suoi derivati, molto meno ci si esprima concretamente sul cosa cambiare, come, quanto, perché.

A parte che già molti, in filosofia, hanno cercato di disquisire sulla questione fin dai tempi antichi, da Aristotele – che sosteneva (nella Fisica) che se c’è il tempo c’è il cambiamento e solo se c’è un cambiamento può esistere il tempo – in poi, e di recente è uscito questo interessante libro di Federico Sollazzo che offre uno sguardo moderno-contemporaneo sul tema. Ma qui, senza andar troppo sul filosoficamente difficile, vorrei mantenere la mia riflessione su un piano più pratico e quotidiano, in particolare riguardo cosa si possa considerare un “vero” cambiamento, nel presente e nel mondo in cui viviamo.

In primis, mi viene da dire che Aristotele aveva ragione, anche intendendo il “tempo” per come lo fa la fisica contemporanea cioè qualcosa di sostanzialmente inesistente, dacché espressione di moto nello spazio: ma pure il moto a ben vedere è cambiamento – di posizione, di velocità, a volte di forma, e così via. Aveva ragione nel senso che l’esistenza del mondo e della vita è cambiamento, e se così non fosse di vita al mondo ce ne sarebbe ben poca! Similmente l’evoluzione della vita – umana, nello specifico, anche come nell’espressione della sua “civiltà” – deve necessariamente comportare un continuo cambiamento, al punto da poter dire che la normalità, che sovente noi intendiamo con fissità e costanza delle cose, è in realtà il frutto di un continuo cambiamento che, per quanto sopra, non intendiamo (più) come tale: un processo fatto di ininterrotte minime variazioni che assimiliamo inconsciamente negli automatismi della quotidianità ed effettivamente ci cambiano e cambiano il mondo che abbiamo intorno ma, appunto, quasi sempre senza che ce ne rendiamo conto.

D’altro canto viviamo pure una quotidianità che, da queste italiche parti, ha reso fondamentale (anche immaterialmente) il gattopardiano principio del “tutto cambi affinché nulla cambi”, cioè quel modus vivendi e operandi artificioso e deviato – per fini sovente ben poco nobili, inutile rimarcarlo – che arrota il processo di cambiamento su se stesso vanificandone gli effetti e cortocircuitando la sua aristotelica “normalità”. Non è un caso, infatti, che la vitalità civica e culturale del paese sia a dir poco asfittica se non già alquanto comatosa – per non dire pure di peggio.

Dunque, cosa dobbiamo e possiamo intendere con “cambiamento”? Non poterci più abbracciare o dover far la coda distanziati di un metro fuori dal panettiere è un cambiamento? Per me no. Acquistare un paio di sneakers on line al posto di andare al negozio di scarpe è un cambiamento? No, nella sostanza non lo è. Il coronavirus insomma, ci ha cambiato la vita? Io credo di no, semmai ha variato la forma di certe azioni quotidiane ma non la sostanza, che resta sempre quella di prima. A volte nemmeno eventi ben più radicali provocano un autentico cambiamento – una guerra, oppure una catastrofe naturale, ad esempio – ma producono assestamenti più o meno profondi che generano le stesse cose di prima in forme diverse ma con identiche sostanze, ribadisco. Non sono “cambiamenti”: semplicemente, la meta resta quella di prima ma la si raggiunge da una via parallela (o differente ma non troppo, visto dove conduce) alla precedente.

Invece, se leggo dell’etimologia del termine cambiare – mi studio spesso l’origine delle parole perché in essa vi si trova facilmente il loro senso autentico, che resta sempre valido anche quando quelle parole abbiano assunto altri significati, a volte persino antitetici a quelli originari – scopro che avrebbe una possibile correlazione con il greco antico σκαμβός (skambós), “piegato, curvo”; leggo pure che in greco “kampè”, che proviene dalla stessa radice etimologica, significa giravolta. Cioè, il termine ha a che fare con un cambio piuttosto netto di direzione, addirittura un dietrofront o quasi. Da questo punto di vista, credo sia facile convenire che di cambiamenti autentici ve ne siano in atto molto pochi, in questi momenti, e ancor meno se ne vedano all’orizzonte, forse. Nel passato sì, ce ne sono stati parecchi di cambiamenti, dalla ruota in poi, ed è stato grazie a quelli se la civiltà umana è arrivata al punto evolutivo in cui è – be’, nel bene e nel male di ciò, ovvio. Anche il web è stato un bel cambiamento, ma che forse non ha (ancora?) generato tutta la portata dei suoi effetti potenziali e che d’altro canto per molti versi non ha realmente “deviato di netto” la nostra vita quotidiana, pur variando molte delle sue azioni quotidiane. Nemmeno la conquista della Luna è stata un cambiamento o, meglio, le è stato impedito di esserlo, ma di sicuro se un domani si potesse andare a vivere sulla Luna o su Marte adattando a tali mondi e alla loro diversità nei confronti della Terra le nostre vite allora sì, per chi lo affronterebbe sarebbe un gran cambiamento – ma solo banali esempi, questi, tra i miliardi che si potrebbero proporre al riguardo.

Quindi? Be’, ammetto che una risposta al mio quesito inziale non ce l’ho, almeno per il momento, ovvero ne avrei che tuttavia avrebbero valore per me ma forse non lo avrebbero per altri. E questa osservazione, però, non è una risposta ma potrebbe esserne l’anticamera… Mi viene infatti in mente una citazione di Tolstoj, «Tutti pensano a cambiare l’umanità, e nessuno pensa a cambiare sé stesso», che mi pare assolutamente interessante sul tema. Cioè: e se il più vero e “curvante” cambiamento non fosse da ricercare e conseguire – ovvero da attendere e aspettarsi – intorno a noi ma dentro di noi? E se fosse primariamente immateriale, per poter poi essere materiale e pratico? Quanti cambiamenti vengono invocati per il mondo, in effetti, ma al contempo si resiste nel cambiare i nostri relativi atteggiamenti! Altrimenti, per fare un esempio, la “rivoluzione” delle energie sostenibili l’avremmo attuata da qualche decennio mentre al momento siamo ancora alle belle parole e ai pochi veri e utili fatti. O per restare in ambiti più quotidiani e nostrani: quanto spesso si invoca una maggior moralità e un più alto senso civico, nella società italiana, ma poi per primi se possiamo fare i furbi lo facciamo autoassolvendoci all’istante perché «massì, che sarà mai, una volta ogni tanto!» – e così, rapidamente, quella volta ogni tanto diventa la norma: un cambiamento anche questo, in fondo, cioè una retromarcia verso lo schianto prossimo contro il muro dell’ipocrisia!

Ma, ribadisco, al momento di risposte certe non ne ho, ho solo riflessioni, osservazioni, elucubrazioni, arzigogoli, scempiaggini forse, e certamente (ma inevitabilmente) qui non posso che trattare la questione in modo essenziale e sbrigativo. Tuttavia, quello sul cosa cambiare, come, quanto, perché cambiare è un tema al quale dovremmo pensare meglio, io dico, che dovremmo meglio definire, determinare, sviscerare, e comprendere a fondo nelle sue accezioni teoriche e pratiche. E dovremmo farlo partendo necessariamente da noi stessi, dal porci le domande e cercarci le migliori risposte possibili nella visione consapevole del mondo che abbiamo ovvero che vorremmo avere e conseguire, sentendoci ben coinvolti in essa e giammai estranei cioè pronti al far spallucce, allo scaricabarile o alla fuga. Altrimenti, temo, il “cambiamento” resterà solo l’ennesima bella parola da usare nei nostri discorsi sui massimi sistemi prima di tornare a perdere tempo nelle bazzecole dei social o di fumarci un’altra sigaretta per poi buttarne il mozzicone in terra. Come sempre, già.

Scritto da di Luca Rota (luca@lucarota.it)   
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