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IL BUCO NERO DELLA UNO BIANCA
Giovedì 31 Dicembre 2020 08:12

 

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Trent'anni fa la strage del Pilastro accende i riflettori sull'incredibile saga assassina dei fratelli Savi. Criminali in divisa che confesseranno oltre 100 rapine e 24 omicidi. Senza chiarire i lati oscuri di una stagione di terrore che ha sconvolto l’Italia

GENTILISSIME/I,

la strage del Pilastro è annoverata tra le più atroci, poliziotti che uccidono Carabinieri , eleborare il lutto di tale ferocia è impossibile! Come associazione, siamo impegnati nel ricordo di tutte le vittime innocenti, cadute per mano di pezzi  deviati dello Stato. Il buco nero della Uno bianca, sicuramente ha avuto complici nelle istituzioni. Lunghissimi l'eleco

degli attentati e delle vittime. L'Emilia Romagna, la Regione più colpita, il simbolo della lotta Partigiana, antifascista militante da sempre. Un bagno di sangue l'accompagnata per lunghissimi anni. Resta il buco nero, un cratere che erutta sospetti mai sopiti. Come dichiarò Pasolini: "Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti. (attentati alle istituzioni e stragi) Io so: Ma non ho prove. Non ho nemmeno indizi" 14 novembre 1974.

A.M.

Il nome 'Pilastro' era dovuto ad una strada, che ai tempi in cui cominciò la costruzione delle abitazioni attraversava il quartiere. È in questo posto, difficile e decontestualizzato, che la 'Banda della Uno Bianca' (la maggior parte dei componenti era membro della Polizia di Statocompie, il 4 gennaio 1991, uno dei suoi efferati delitti. Una strage che coinvolge tre carabinieri.

Otello Stefanini (effettivo alla Stazione Carabinieri Bologna Mazzini) e due membri dell'equipaggio, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, (appartenenti alla Stazione Carabinieri Bologna Porta Lame)

Il primo della Banda della Uno bianca a venire arrestato fu Roberto Savi. Era il 21 novembre del 1994 e nel giro di meno di una decina di giorni tutti i membri della banda finirono in manette. Fu la fine di una brutale epopea criminale durata sette anni e mezzo. Ma perché ci volle così tanto?

Le indagini furono difficili fin dall’inizio. Nelle prime fasi la rapida evoluzione e la varietà, per obbiettivi e metodi, dei delitti rese difficile riconoscere un unico gruppo dietro i diversi crimini. E infatti nelle cronache dell’epoca si alternano nomi diversi: la Banda dei caselli, la Banda della Regata (nei primi colpi, prima di adottare le iconiche Uno bianche, usavano la Fiat Regata di Alberto Savi), la Banda delle Coop.

Ma difficile era anche riuscire a comprendere quale fosse di preciso la natura e quali le finalità della banda. Semplici banditi in cerca di bottino? Criminalità organizzata? Terrorismo? Domande a cui, in un certo senso, non è semplice rispondere nemmeno oggi. «Dietro la Uno bianca c'è soltanto la targa, i fanali e il paraurti. Basta. Non c'è nient'altro», dichiarerà poi Fabio Savi, negando qualunque sovrastruttura al di sopra della banda. Ma i dubbi su possibili legami con la mafia, il terrorismo sovversivo di estrema destra o con i servizi segreti deviati non si sono mai dissipati del tutto, sebbene non sia mai emerso nulla che li suffragasse concretamente.

Vi fu anche un caso accertato di tentato depistaggio. In seguito al brutale omicidio di due carabinieri, Cataldo Stasi e Umberto Erriu, in un parcheggio a Castel Maggiore, il brigadiere Domenico Macauda fu accusato di aver fabbricato prove false per deviare le indagini verso un pregiudicato e una famiglia di incensurati. Macauda arrivò a introdursi nelle loro case per lasciare proiettili di  una 357 Magnum (l’arma usata per l’assassinio dei due militari), dosi di eroina e documenti falsi, tutto nel tentativo di dimostrare un legame con la mafia catanese. Condannato poi per calunnia, spiegò di aver messo in atto il depistaggio per carrierismo.

Certo è che l’appartenenza dei membri della banda alle forze dell’ordine rappresentò un vantaggio che i banditi seppero sfruttare e che non semplificò il corretto indirizzo delle indagini. Tuttavia, non mancò neanche chi seppe trarre corrette intuizioni in quel senso. Al Pm di Rimini Roberto Savio non sfuggì che, chiunque ci fosse dietro alla Uno bianca, doveva trattarsi di qualcuno addestrato, dotato di una grande competenza nell’uso delle armi e un’ottima conoscenza del territorio. Nell’agosto del ’91, in seguito all’agguato ai senegalesi, dichiarò al Resto del Carlino: «Chi impugna l’arma  spara alla perfezione e ha una conoscenza della zona superiore al pericolo che corre». In seguito, affermerà anche: «Si tratta di persone che indossano una divisa o che, all’occorrenza, possono mostrare un tesserino».

Si cominciò ad avvicinarsi a una svolta all’inizio del 1994. Il sostituto procuratore Daniele Paci eredita da Roberto Savio, nel frattempo andato in pensione, il caso della Uno bianca e decide di costituire un pool investigativo. È formato da agenti della Squadra mobile, del Criminalpol e da carabinieri. Il piano è quello di riesaminare in maniera analitica tutti i delitti attribuiti alla banda. Nei mesi di lavoro del pool il risultato più significativo è l’identikit di uno dei criminali, ottenuto grazie a un fotogramma ripreso dalla telecamera a circuito chiuso di una banca di Cesena durante una rapina della banda il 21 marzo 1994.

Ma non pare essere sufficiente. Le indagini sembrano includenti e nell’estate il pool viene sciolto. Ma due poliziotti della questura di Rimini, l'ispettore Luciano Baglioni e il sovrintendente Pietro Costanza, che avevano fatto parte del pool chiedono e ottengono di continuare a lavorare a tempo pieno sul caso. Baglioni e Costanza nei mesi successivi eseguono un minuzioso studio di tutti i colpi della banda e iniziano a mettere in atto sistematici appostamenti davanti a quelli che individuano come possibili futuri obbiettivi delle rapine: banche e istituti di credito nelle zone che la Uno bianca preferiva colpire.

Il 3 novembre questa tattica dà i suoi frutti. Davanti a una banca di Santa Giustina, nel riminese, i due poliziotti notano una Fiat Tipo bianca dalla targa illeggibile. La fisionomia dell’uomo alla guida corrisponde con quella dell’identikit ricavato alcuni mesi prima. Baglioni e Costanza seguono l’auto fino a Torriana, nell’entroterra riminese, dove l’uomo alla guida della Tipo abita. Quell’uomo, i due poliziotti, lo verificheranno presto, si chiama Fabio Savi. Da lì le cose si mettono in moto: non ci vuole molto, infatti, per scoprire che Fabio ha un fratello in polizia, Roberto Savi. Un confronto incrociato tra gli orari dei turni di Roberto e gli orari delle rapine rivela che il maggiore dei Savi non era mai in servizio quando la banda colpiva.

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IL MONUMENTO ALLE VITTIME DELLA UNO BIANCA

Roberto Savi viene così arrestato il 21 novembre, mentre è al lavoro, in procura. Non si scompone, pare che ormai se lo aspettasse. Mentre viene portato via dice ai suoi colleghi: «Potevo farvi saltare tutti in aria».

Fabio invece viene arrestato pochi giorni dopo, mentre cerca di fuggire dal paese, in Austria. È catturato in un autogrill a ventisette chilometri dal confine. Con lui c’è la sua compagna: Eva Mikula, una giovane rumena che si rivelerà una testimone decisiva.

Inizialmente il terzo fratello, Alberto, sembra estraneo ai fatti. Poco dopo l’arresto di Roberto in una intervista a Repubblica si mostra distrutto dal dolore e dalla vergogna e dichiara: «Se è davvero lui il killer della Uno, farebbe bene a spararsi un colpo in testa». Ma il 26 novembre anche lui finisce in manette. Non dimostra la freddezza dei fratelli: ha una crisi di nervi, piange e nega ancora il coinvolgimento negli omicidi.

Il giorno prima era toccato a Pietro Gugliotta: arrestato a Vignola, vicino Modena, dove viveva con la moglie e le due figlie. Il 29 novembre, infine, la cattura degli ultimi due membri minori della banda rimasti: Marino Occhipinti, preso nella sua casa di Castel Maggiore, e Luca Vallicelli, ammanettato mentre usciva da un bar con la sua fidanzata.  

A tutti e tre i fratelli Savi attende l’ergastolo.

Scritto da InCronaca   
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