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L’IRRESPONSABILITA’ DEI RESPONSABILI
Giovedì 27 Maggio 2021 05:51

CLICCA -LA LEGGE SUI DISASTRI AMBIENTALI

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Viene in mente la sciagura del Cermis.

Strage di Stresa. “Non volevano perdere l’incasso”. I freni della funivia bloccati per scelta

tre arrestati e il meccanismo manomesso "con un gesto consapevole". L'obiettivo era lasciare l'impianto in funzione per salvare la stagione.

STRESA - La cabina numero 3 della funivia non poteva frenare. Non con entrambi i forchettoni inseriti sui freni d'emergenza. Chi gestiva l'impianto lo sapeva. Lo sapeva Gabriele Tadini, il caposervizio delle funivie che domenica mattina ha messo in funzione l'impianto senza rimuovere i divaricatori, ma ne erano informati anche il gestore Luigi Nerini e il direttore d'esercizio, ingegnere della Leitner, Enrico Perocchio. Omicidio colposo e criminale, della funivia Stresa-Mottarone del 23 maggio in cui la cabina è precipitata dal punto più alto del tracciato, è l’ultimo di una serie di episodi avvenuti negli ultimi anni in tutto il mondo. In Italia, fra i precedenti, le due tragedie del Cermis: quella del marzo 1976 quando per un incidente tecnico la cabina della funivia precipitò causando 42 morti e quella del febbraio 1998, quando un aereo militare statunitense tranciò i cavi dell'impianto provocando la morte di 20 persone.

 

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LA CABINA DEL CERMIS

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I PILOTI AMERICANI DEL CERMIS

Morti come topi schiacciati tra le lamiere in una giornata di festa, precipitati dalla montagna dei ciclisti, dal panorama mozzafiato. Morti per incuria, siamo stati i promotori CON IL COMITATO SOPRAVVISSUTI DEL VAIONT, della Legge della Giornata Nazionale in ricordo delle Vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’ uomo. Li ricordammo per la prima volta a Stava, dove una miniera di fluorite, collasso e inondò il paese, sepolti da una montagna di fanghi, 268 morti. Gemellati con la tragedia del Vajont, dove per soldi, collassò il Monte Toc e si portò via l’intero paese di Longarone, oltre 2000 morti..

 

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LA CABINA DEL CERMIS

Da tempo si sapeva che la montagna stava cedendo, la coraggiosissima giornalista dell’ Unità, Tina Merlin. Viene ricordata, più che per la sua pur ricca produzione letteraria, per avere aiutato, con caparbietà e ostinazione, a mettere in luce la verità sulla costruzione della diga del Vajont. Dando voce alle denunce degli abitanti di Erto e Casso, riuscì a denunciare i pericoli che avrebbero corso i due paesi se la diga fosse stata effettivamente messa in funzione. Inascoltata dalle istituzioni, nel 1959 il conte Vittorio Cini, ultimo presidente della SADE, fece denunciare la giornalista dai carabinieri di Erto per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico" tramite i suoi articoli, ma lei fu processata e assolta il 30 novembre 1960 dal giudice Angelo Salvini del tribunale di Milano perché il fatto non costituiva reato.[2]

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TINA MERLIN

In seguito al disastro del Vajont, consumato il 9 ottobre 1963, tentò di pubblicare un libro sulla vicenda, Sulla Pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, che tuttavia trovò un editore solo nel 1983. In tribunale, all'epoca, vigevano delle gerarchie di tipo militare o militaresco, e non saliva nemmeno perché non era gradita in quanto corrispondente dell'Unità. Conobbe il giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, e siccome entrambi avevano avuto lutti in famiglia a causa della guerra, pretese che come gli altri giornalisti del Gazzettino e del resto del Carlino anche lei accedesse al tribunale per raccogliere le sue informazioni.[3]

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Cimitero di Stava

Ormai da circa dieci anni in pensione, morì dopo un anno di tumore il 22 dicembre 1991 a Belluno a 65 anni.[4] Le sue esequie si tennero con rito civile il giorno successivo presso il cimitero cittadino.[5]

Non volevano perdere l’incasso i padroni dell’ Italia, che vogliono liberamente licenziare i lavoratori, complice il presidente del Consiglio Mario Draghi. E’ la fotografia di una classe dirigente spietata, nominata dai partiti, controllano i gangli vitali del paese, quel poco di produttivo che è rimasto.

Il processo di Longarone fu spostato a L’Aquila per legittima suspicione, come il processo di Piazza Fontana a Catanzaro, dove finirono a tarallucci e vino. Le sentenze non si discutono, si accettano così come sono. Ci hanno impapocchiato per anni e anni. Ha vinto l’impunità, processi lunghissimi che finiscono con la prescrizione. Piangiamo i morti, è il nostro destino di paese senza legalità e verità, come la strage di Ustica.

Scritto da Mario Arpaia   
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