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HA RACCONTATO L'ITALIA E GLI ITALIANI
Giovedì 14 Luglio 2022 10:21

È morto Eugenio Scalfari,  Una vita da giornalista patriarca

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Il fondatore di Repubblica. Una vita da giornalista patriarca 

La collaborazione con “Il Mondo” di Pannunzio, la fondazione dell’“Espresso” che, con le inchieste, racconta l’altra faccia del Paese. E l’avventura di “Repubblica” che cambia per sempre la storia dell’informazione italiana

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GENTILISSIME/I,

il primo libro che lessi di Egenio Scalfari, fu Razza Padrona, da quel giorno non lo persi più di vista, un' affresco, una fotografia dell'Italia politica ed economica, un manuale per capire meglio i suoi articoli.Uno stile nuovo di raccontare, cronaca e analisi dei fatti. Ad oggi nessuno è riuscito ad eguagliarlo. La sua penna emetteva scintille, i suoi scritti sulla Democrazia Cristiana e i Socialisti, davano la misura del disastro, del saccheggio delle risorse pubbliche. Gli scritti sul San Sebastiano martire, il quadro alle spalle della scrivania di Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia, costretto alle dimissioni. L'immensità dell'uomo Scalfari, non credente, si chiude con i dialoghi con Papa Francesco.  

“Razza padrona” è la “storia della borghesia di stato da Cefis a Cefis.” La ricostruzione, cioè, del mutamento profondo vissuto dalla società industriale e finanziaria italiana nel corso dell’ultimo decennio. Ed ha anche, quindi, la storia di come sono cambiati il potere, la politica, le istituzioni. L’itinerario seguito dal libro è quello che collega la società Capitalistica degli anni 60, ancora dominata dalla figura dell’imprenditore privato, a quella attuale, profondamente segnata da strutture o comportamenti ormai corporativi e clientelari. Di questo itinerario la Montedison rappresenta il caso più vistoso. Da dieci anni la sua storia è un incessante incrociarsi di intrighi, colpi di mano, fulminee operazioni finanziarie che hanno visto all’opera una affollata passerella di personaggi: ministri, segretari di partito, finanzieri, banchieri, corruttori di professione, agenti di cambio, avventurieri. La vicenda ha avuto uno sceneggiatore, un regista e un primo attore: Eugenio Cefis.
In Razza padrona c’è il racconto del suo attacco ai vecchi padroni guidati da Giorgio Valerio; il suo scontro, a fianco di Pesenti, con Michele Sindona per il controllo della Bastogi; il braccio di ferro con gli Agnelli; l’intreccio di politica, affari, intercettazioni e corruzioni rivelate dal processo sui “fondi neri” della Montedison; la lunga guerra all’interno dell’industria chimica italiana.
Nelle pagine del libro compaiono di volta in volta, nel ruolo di avversari o di alleati, il Governatore della Banca d’Italia e Leopoldo Pirelli, Anna Bonomi e Enrico Cuccia, Raffaele Girotti e Nino Rovelli, Giuseppe Petrilli e Cesare Merzagora, in un affresco dove l’Italia milanese si confronta con quella romana, viene a patti, stringe nuove solidarietà, apre nuove spaccature, stabilendo così una diversa geografia del potere.
Un libro, Razza padrona, nuovo anche nello stile, che ricorda alcune opere della storiografia americana, come L’età di Roosevelt di Arthur Schlesinger o Come si fa un presidente di Theodore White. La ricchezza delle fonti la scrupolosità dell’informazione, le testimonianze dirette unite a un piglio narrativo di tipo giornalistico ne fanno un manuale indispensabile per conoscere le vicende economiche dell’ultimo decennio, ma anche un libro di lettura immediata e vivacissima. 

Alla fine è arrivata, la Regina ha toccato il suo corpo esile, fragilissimo. E lui non s’è fatto trovare impreparato. Pochi come Eugenio Scalfari sono stati capaci di accogliere la morte con altrettanta vitalità. Fino agli ultimi giorni, prima di scivolare in una sorta di torpore, è stato vigile sul suo paesaggio mentale che andava acquistando profondità e colori diversi. E fino alla fine è rimasto un giornalista, un cronista curioso che ci raccontava la sua traversata vegliarda verso un pianeta a noi sconosciuto. «Papà hai paura della morte?», gli chiedono le figlie, Enrica e Donata, nell’ultimo splendido documentario Sentimental Journey. Lo sguardo arriva sereno, quasi non ci fosse bisogno del suo no fermo. Si muore desiderando, diceva. Desiderando di scrivere. Desiderando di amare. Desiderando di essere sempre nelle contraddizioni del mondo.

 

«Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924 alle ore 10.30, all’ultimo piano d’un palazzo costruito nei primi anni dell’Ottocento nella piazza centrale della città». Comincia così il suo racconto autobiografico, con l’austera meticolosità di chi sa che la propria vita – o meglio le tante vite vissute in un’unica vita – è stata un’avventura importante. Un lungo viaggio in cui ha incrociato molte altre esistenze, condizionando innumerevoli destini e anche la storia d’un paese intero. Economista, inventore di giornali, imprenditore, politico, filosofo, romanziere, poeta. In ultimo anche amico del Papa gesuita, lui cresciuto tra le pagine di Diderot e Voltaire. Non tracciava mai un limite, mosso da un’energia che era insofferente ai confini.

Tra le sue letture preferite erano i romanzi di Pessoa, lo scrittore del doppio e del multiplo. Anche Scalfari sentiva di essere sempre altro, un’orchestra con le sue armonie e i suoi contrappunti, molti strumenti all’opera contemporaneamente, corde e arpe, timpani e tamburi. Guai a inciampare nella monotonia tonale, in contrasto con la vita che deve essere tempesta. Del patriarca aveva l’aspetto fisico oltre che lo stile, la barba bianca che ricordava quella del nonno calabrese e la capacità di tenere insieme uomini e donne caratterialmente diversi. Una qualità che attribuiva al suo ruolo di figlio unico di genitori sì affettuosi ma lontani, la mamma romantica e mite, il padre un meridionale pugnace che aveva aderito all’appello di D’Annunzio a Fiume.

Eugenio Scalfari. La cultura, l’intellettuale che cancellò la terza pagina

Paolo Mauri 14 Luglio 2022 

 «Fu l’amore per me a tenerli uniti finché vissero. E io feci tutto ciò che potevo per evitare la separazione che avrei vissuto come una catastrofe». Una triangolazione d’affetti decisiva per la sua formazione sentimentale e professionale, della quale avrebbe preso coscienza molto più tardi. «La componente paternale è stata la dominante d’ogni mio tipo di sentimento e di amore per gli altri. L’appartenenza a un progetto comune, la protezione, la felicità che tutto questo poteva procurare, il senso di partecipare a qualcosa che superava i singoli individui, me compreso, ma che aveva in me un motore di avviamento, privo di rivalità e di gelosia». Un patriarca-padre non privo di una componente femminile, accessibile però soltanto agli amici più intimi.

Tra gli incontri che ne forgiano l’adolescenza vi fu quello a Sanremo con Italo Calvino, il compagno di banco insieme al quale costruisce una grammatica del pensiero e delle emozioni: in pubblico ne parlava con l’ammirazione che si deve al grande scrittore, nel privato emergeva la complicità maschile di due amici che scoprivano insieme la vita e la sessualità anche negli aspetti più ruvidi. A dividerli furono le diverse scelte verso il regime. Trasferito a Roma nel 1941, Scalfari aveva attraversato il fascismo come molti della sua generazione, nella divisa grigioverde da balilla moschettiere immerso nel mito della romanità. Quando nel 1943 viene cacciato dal Guf per un articolo scritto su Roma fascista sulla corruzione dei gerarchi, non la prende bene. Ma fu quell’episodio a segnare l’inizio della maturazione antifascista che l’avrebbe portato su sponde ideali molto lontane. Della sua adesione a Mussolini parlava senza reticenze, forse più insistentemente in anni recenti, nel tentativo mai finito di storicizzare un’esperienza che in fondo lo turbava.

Nel dopoguerra arriva il sodalizio con i liberal, l’incontro con i “maggiori” che ne avrebbe segnato definitivamente il destino. Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, padri di giornalismo e di politica. Comincia l’epopea illuminista del Mondo, con le stelle polari di Croce, Luigi Einaudi e Salvemini, tra liberalismo e socialismo democratico. Di giorno si riflette sulla politica e sull’economia, la sera ci si immerge nell’atmosfera sciroccosa di via Veneto, in lini bianchi d’estate e flanelle chiare d’inverno, con la musica di Duke Ellington e il piano bar del tapeur Amerigo dove si balla il charleston e il foxtrot. Il socialismo alla Pellizza da Volpedo non era roba per quel «club di vitelloni con un pizzico snob, di solito longilinei e di solito benestanti».

Eugenio Scalfari. Repubblica primo sogno - Il documentario

A Milano frequenta il caffè Cova con il meglio dell’establishment economico e finanziario del dopoguerra. Dal 1949 collabora al Mondo, sotto la guida del sulfureo moschettiere Ernesto Rossi. E sull’Europeo tiene una rubrica di economia. È là che inventa il giornalismo economico, genere che non esisteva o meglio era appannaggio di severi cultori della materia. Ne avrebbe attribuito il merito ad Arrigo Benedetti che per tre volte gli cestinò l’articolo: «Ma come scrivi, non ho capito niente!». Bisognava raccontare l’economia con le sue regole e i suoi personaggi, le forze che muovevano il mercato e gli interessi, senza tecnicismi e ragionamenti oscuri.

Una lezione che Scalfari apprese istintivamente in poche settimane, impegnandosi nei successivi cinquant’anni a trasmetterne il modello ai suoi redattori. Gli venne naturale anche aderire a un costume di giornalismo libero, attitudine nella carta stampata ancora più rara della capacità divulgativa. Scrisse sul Mondo delle malefatte della Federconsorzi, il più potente cliente della Banca Nazionale del Lavoro presso la quale lavorava da un paio d’anni. La reazione fu immediata: trasferimento ad Alghero che equivaleva a un licenziamento. Scalfari non fece una piega: solo ne riferì la notizia nel post scriptum del suo ultimo articolo sulla Federconsorzi, conquistandosi l’ammirazione di Guido Carli e Raffaele Mattioli.

Eugenio Scalfari. Gli incontri in Vaticano, un laico che voleva capire

di Alberto Melloni 

Scritto da Simonetta Fiori   
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