Sabato 20 Novembre 2021 16:09 |
Prefazione di Lorenzo Spurio Apartheid capillare scissione fra vene e arterie, la dannazione -non saper condividere- bruciando sperpera calore d'istinti GENTILISSIME/I, GENTILISSIME/I, La grandezza della poesia e dei poeti sta in sei righe che racchiudono la nostra diversità dai non umani, Apartheid, ci riportano immediatamente a Nelson Mandela e a Martin Luther King fino a John Lewis. Considerazione del Presidente Barack Obama, nel 56° anniversario delle marce da Selma a Montgomery. EDMUND PETTUS BRIDGE SELMA, ALABAMA. La carissima amica Rita, con quest'ultima racccolta di poesie, supera muri e filo spinato, barriere che pensavamo avessimo abbattuto per sempre. Rita ci riporta con in piedi sulla terra...da quaggiù. Il razzismo, il cancro dell'anima. I poeti, le poetesse, a differenza di noi comuni mortali, hanno una sensibilità unica, nel cogliere il momento esatto, che anticipa di anni il destino dell' umanità tutta. Pensate ai neri al XIII emendamento della Costituzione americana, che abolisce la schiavitù, ma lascia intatto il colore della pelle...quanti anni sono trascorsi da quando Abraham Lincoln, dicembre 1875, abolì la schiavitù. Sono poesie politiche come quelle di Bob Dylan e Joan Baez, si protrebbero cantare, andrebbero lette e spiegate nelle scuole di ogni ordine e grado. Dovete sapere che quando riportiamo nel nostro sito web poesie di Leopardi, Pasolini, Campana, García Lorca, il sito viene preso d'assalto. Rita ci fa incontrare Frida Kahlo e la sua tormetata esistenza, non è un caso, i poeti, le poetesse, vivono tormenti che non possiamo immaginare, sono contati, i poeti e le poetesse, dobbiamo amarle/i, più di noi stessi, solo così possiamo apprezzare la loro insostituibile presenza. Ci sono riferimenti agli anarchici Sacco e Vanzetti. Sacco è un emigrante della provincia di Foggia (Torremaggiore). Uccisi sulla sedia elettrica innocentemente dall' America Maccartista. Rita ti siamo immensamente grati per i temi che tratti, Gino Strada è morto stremato dalla fatica e dal dolore per come sono trattati i migranti.
La nuova opera poetica di Rita Stanzione è anticipata da un titolo curioso, che merita senz’altro attenzione. Esso recita Da quassù, con l’intenzione di voler indicare la posizione elevata e privilegiata dalla quale lo sguardo verso il mondo viene offerto. Non è un’altezza fisica – quella di una montagna o di un grattacielo – piuttosto è di tipo filosofico, dettata da un desiderio grandangolare sui fatti dell’umana miseria. Si guarda in basso, e non dall’alto in basso, che sarebbe un atteggiamento viziato; difatti quel che il lettore incontrerà non ha a che vedere con un’intenzione di ricavare dai fatti evocati – tragici e pregni di uno scoramento esistenziale che si fa desolazione collettiva – un giudizio. Questo sarebbe il pensiero dominante se l’Autrice non avesse fatto seguire un sottotitolo (la terra è bellissima) che suona come un potente messaggio d’amore, come un’attestazione di stima, ma anche di rassicurazione verso il posto che ci ospita. Il rapporto col cosmo, tra Terra e Luna, orbite e campi di costellazione, si staglia come un tappeto di possibilità sin dagli albori del testo, e la chiosa di Yuri Gagarin, lo scienziato russo che per primo viaggiò nello spazio, fornisce di per sé questo canale interpretativo. Se si pensa alla sola letteratura umanistica ci rendiamo conto di quanto siano infinite le visioni dell’uomo verso la luna, dal flâneur che, scaltro, avanza nella notte parigina sotto una luce che ne impreziosisce il passo, ai fasci argentei come un velo nuziale che s’immergono in uno specchio d’acqua nella poesia di García Lorca. E cosa dire di Leopardi dinanzi alla maestosità della forza ctonia? Tornando all’opera di Stanzione, che si presenta con una netta prevalenza di componimenti mossi da un’alta tensione civile, viene da chiedersi se forse la Terra non sia qualcosa di preferibile se vista da un’angolatura differente. Vengono alla mente alcune parole dell’esistenzialista Martin Heidegger che ebbe a rivelare: «Non so se voi abbiate avuto paura, ma io mi sono piuttosto spaventato vedendo la Terra inquadrata dalla Luna». Spavento che – crediamo – non era dato tanto dalla conformazione del pianeta quanto, allegoricamente, dalle cattive condotte e degenerazioni che in essa trovavano il loro contesto. 8 La poetica garbata e incisiva della Stanzione non può essere quella dell’uomo assuefatto dalla cronaca dolorosa dell’oggi né del vivisezionatore della realtà, così pesantemente occupata dagli oggetti, dai segni e dalle direzioni piuttosto che dai significati, dalle profondità e dai contorni di (possibile) luce. La pregnanza del titolo scelto dalla Nostra per questo libro non sta tanto nel riferirsi alla luna quale entità misteriosa, proiezione numinosa verso la quale tendere o semmai rimanere affabulati, né nell’evocare direttamente la fenomenologia ctonia della donna. Risiede, al contrario, in questa sua perequazione singolare nel voler centralizzare l’attenzione delle sue liriche, del suo mondo sensitivo e sensoriale, sull’uomo in quanto abitante quale una vera radiografia dell’umana specie. Ciò di cui la Stanzione ci parla non è richiamato con la finalità di partorirne idee perentorie, sguardi giudiziosi, vie declamatorie di difesa o rigetto dinanzi a cattivi comportamenti. La poetessa ci offre uno sguardo attento, smaliziato del mondo e di alcuni degli avvenimenti che in esso prendono piede, spesso nel silenzio generale, quasi sempre nella disattenzione dolosa di chi potrebbe intervenire e segnare un corso diverso a stori 9 Stanzione pone la lente d’ingrandimento, parlando di un paese dalla faccia che non guarda e di erte rampe che si ergono contro la presenza di questi disperati; nella poesia Tre quarti d’accoglienza, che ben esplica l’inefficacia e la carenza dell’aiuto, l’inerzia e l’ipocrisia dell’intervento, si legge in apertura: S’è chiusa a doppia mandata / la riva del vicino. I motivi della speranza, del cambiamento, di un futuro migliore, di una società ravveduta e realmente partecipe ai drammi del singolo in difficoltà vengono via via posti in risalto nei componimenti innervati non solo da una grande pietas cristiana, ma da un reale desiderio di porre sulla carta realtà apparentemente inenarrabili e di certo inaccettabili. L’interrogativo pulsante non può non trovare spazio in tale ambito di riflessione: Quando una mano / chiedeva un frutto al nostro albero / e col silenzio s’è marcito. / E detta fede / com’è così imprecisa, / arida, trattenuta?. Viene messa sotto analisi – non direi sotto accusa – anche la condizione fideistica dell’uomo dacché spesso – anche per il più convinto – essa risulta inabile ad arginare dilemmi e a fornire risposte di reale rassicurazione. Nella seconda sezione dell’opera, Se questi sono uomini, è evidente l’eco di Levi nel descrivere una condizione di negazione dell’uomo in relazione alle condizioni di prigionia, violenza e sottomissione vissute nel secondo conflitto mondiale. Qui trovano posto poesie che fanno riferimento a contesti di violenza in giro per il mondo e componimenti che parlano della gravità della guerra quale anticamera di un’infanzia negata; in Io uccido per la pace si evidenzia nel titolo un’idiosincrasia che viene ripresa nel corso del contesto: È la missione /di rendere il mondo migliore / che inghiotte interi villaggi / e ignari bambini / che chiedono solo di crescere / […] / Gli amici son quelli che portano pace con guerra. C’è un riflesso amaro che verte alla riprovazione verso la lunga «tradizione» delle sedicenti missioni di pace in contesto straniero. Qui troviamo una lirica dedicata anche al fenomeno dell’apartheid, della deflagrazione di vite causata dall’esplosione nucleare di Hiroshima, della logorante guerra siriana: Hanno smesso i sorrisi e anche il pianto / i bambini di Aleppo / […] / camminano sui fumi e sulle pietre aride / […] / hanno imparato come muoiono i sogni /insieme ai cari. Il contesto internazionale risulta particolarmente a cuore alla Nostra, ce ne rendiamo conto da altre liriche dedicate a situazioni di profondo odio tra gli uomini, come avviene in Gaza: Il 10 male che si espande / per le dune e per mare / […] / E sogni caduti / con le macerie, ogni caro perduto, / e bambini rimasti per sempre bambini. Impressivo il poemetto Dal seno acerbo e storie mute, dedicato alla truce abitudine delle spose bambine dove tutto tende a rimarcare la violenza delle azioni dell’uomo, la fine dell’innocenza e il predisporsi alla vita con urgenza e implacabilità a seguito di condotte comandate. Il tema della donna, del suo silenzio e della sua segregazione, ritorna in altre liriche con le quali cerca, con remissione e grande spirito partecipativo, di far parlare le povere martoriate. La vastità dei rimandi, delle citazioni, degli echi e delle dediche che via via si scorgono nelle poesie della Nostra rendono palese la sua grande conoscenza non solo della letteratura, ma della storia e della cronaca internazionale, la sua predisposizione all’ascolto e la grande partecipazione in termini di comprensione e di emozione alle vicende degli altri. Troviamo dediche che si riferiscono ad alcuni episodi storicizzati quali l’assassinio degli anarchici Sacco e Vanzetti, ma anche un curioso rimando al celebre romanzo di Renata Viganò, L’Agnese va a morire, sino a giungere ad accadimenti ben più vicini quale è il caso della vicenda di Giulio Regeni: Hanno tagliato il futuro / a Giulio/ […] / e non tramava trappole / il suo cuore. Questa sezione di liriche dell’impegno trova una sua eco nella parte finale del volume sotto il titolo Pensieri gridati, dove si trovano poesie declinate a far emergere lo sconforto e la riprovazione verso casi di marginalità urbana (le Vele di Scampia), questioni bioetiche (il caso del piccolo Hope), cui fa seguito un tentativo d’accoglienza al monito lanciato dalla Nostra derubricata quale Aggrappiamoci a tutto. È un tentativo ultimo e disperato, è vero, ma vale la pena tentarlo. In queste liriche che compongono la sezione non si giunge a nessuna verità in particolare, non si è in grado di spiegare l’inspiegabile, di correggere il male; eppure si perviene a una confessione ben più meditata, approfondita, che la Nostra interiormente fa, ben lontana da categorizzazioni, veloci conclusioni, false letture. Un accenno va posto anche alla sezione Compluvium, un vero e proprio Famedio. Qui l’Autrice colleziona testi dedicati a esponenti delle arti e a poeti, ma anche a musicisti: dall’arte sociale di Grosz che palesava sulla tela degenerazioni della classe nazista a efficaci omaggi al surrealismo di Dalí e al cubismo nelle distorte visuali delle celebri prostitute della tela di Picasso. Camei anche della sfortunata Frida 11 Kahlo, dal rigorismo di Piet Mondrian (l’ordine tutto compreso / in un semplice foglio di luce), dal realismo di Guttuso con una poesia dedicata al quadro Vucciria. È gran parte della tradizione artistica contemporanea a venir omaggiata: tributi anche a opere del viennese Klimt, dello sculture Rodin, dei fotografi Julia Margaret Cameron e Robert Capa. Tra le poesie dedicate agli uomini di lettere vi sono Nuances di quarantena, dedicata al celebre autore de Alla ricerca del tempo perduto, in relazione alla sua esperienza di quarantena a Combray e Dove hai portato i tulipani?, con dedica a Sylvia Plath: scivoli tra veste e buio /dove la pace atterra / […] / gonfio di errori è il mondo / […] / per la tua voce audace da far sgomento. Se devo pensare a quest’opera nel suo complesso, mi vengono in mente due artisti che con le loro produzioni hanno reso grande la letteratura e l’arte. Mi riferisco a T. S. Eliot, che con la sua opera magistrale La terra desolata dimostrò le multiple sfaccettature ed echi di linguaggio tra i tanti autori rievocati, citati, richiamati, in una realtà multipla, a mosaico. Dall’altra parte penso a un artista totale come Christo, che con il suo genio è riuscito a dare applicazione a un’arte concreta su grande scala dagli ampi significati. Ciò che interviene in maniera folgorante in operazioni d’arte sul posto, come furono quelle di Christo nel determinare fascino e shock, è la dimensione preventivamente strutturata della temporalità. Vale a dire l’effetto estemporaneo e diretto – automatico un po’ com’era per il Dalí ribelle – che crea sull’uomo, che diviene fruitore dell’opera. Ecco, credo che questa opera abbia indirettamente molto dell’uno e dell’altro, fondendo con compiutezza la ricerca e lo studio attento della poesia con i linguaggi appartenenti a codici diversificati, connubi che permettono di essere valicati e dunque percorsi anche in forma interpretativa, vissuti e ricreati. C’è, nella sua volontà di ospitarci nel suo rigoglioso compluvium, la forza di una visita fortemente istruttiva – mai voluta come strettamente pedagogica – su alcuni misteri dell’arte e occorrenze nella poesia, ma anche la grande generosità di donarci le sue visioni e approfondimenti dinanzi alla grandezza dell’Arte testimone di vita
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Scritto da Rita Stanzione-Lorenzo Spurio,Mario Arpaia |