La Torino borghese e l'alieno
Venerdì 14 Gennaio 2011 08:03

fiat

"Marchionne ultima chance"

La marchionnizzazione della Fiat non ha fatto troppi proseliti convinti nella città ancora orfana di Gianni Agnelli. La città stretta tra il mondialismo del manager abruzzese e il radicalismo della classe operaia di ALBERTO STATERA

La Torino borghese e l'alieno "Marchionne ultima chance"

TORINO - Sali da Mirafiori alla Crocetta o addirittura in collina, lasciando quella working class ingrigita che, confrontando le foto, ai tempi di Berlinguer mostrava davanti ai cancelli capigliature corvine virate oggi al bianco, e trovi una Torino borghese che dire perplessa è poco. Se avesse diritto di voto, l'altra Torino voterebbe sì in blocco al referendum operaio in corso dentro la pancia rugginosa del fordismo, nello stabilimento più antico ancora produttivo in Europa, inaugurato negli anni Trenta da Mussolini. Il quale in privato malediva questa "porca città francese". Ma nessuno oserebbe dire che la marchionnizzazione della Fiat abbia fatto troppi proseliti convinti in una città ancora orfana dopo tanti anni del re repubblicano Gianni Agnelli. E che si chiede: dov'è la Famiglia che per decenni autorizzò magari il corpo a corpo alla baionetta con la classe operaia per poi recuperare su posizioni socialdemocratiche? Guardano giù perplessi dalla collina a quell'alieno apolide che non si è fatto ingabbiare nei salotti sabaudi, che ragiona schietto schietto in modo antitorinese, forse canadese. O svizzero? O abruzzese?

Carlo Callieri, ex uomo forte della Fiat ai tempi della marcia dei quarantamila ed ex vicepresidente di una Confindustria, quasi inutile mostriciattolo burocratico oggi sull'orlo del definitivo sfarinamento anche ad opera dell'alieno, non lo dice esplicitamente. Ma fa capire che la città non lo ama e non può amarlo. Né a Borgo San Paolo, dove crebbe Giancarlo

Pajetta, né a piazza della Repubblica, dove nel mercato popolare i torinesi normali si confondono oggi come tutti i giorni con donne velate e con neo-torinesi marocchini, moldavi, peruviani, egiziani, cinesi, nigeriani e di ogni altro continente, che l'assessore Giovanni Maria Ferraris quantifica in 129.086 su poco più di 900 mila abitanti. Neanche su, nei quartieri alti. Ma, volente o nolente, la città lo deve digerire come unico antidoto possibile su piazza alla desertificazione dell'antica e fiera capitale subalpina.

Bella come mai, ma legata al resto del mondo quasi esclusivamente attraverso l'anello industriale, secondo l'impietosa valutazione dello storico Giuseppe Berta, autore tra l'altro della preziosa analisi contenuta nel suo libro "La Fiat dopo la Fiat", Torino si trova a fare i conti con l'alieno apolide che, tardo epigono del capo indiano Pontiac, ha espugnato Fort Detroit, ma senza esorcizzare il rischio di esserne a sua volta espugnato.

Basta mettersi al rimorchio di Rolando Picchioni, presidente della Fiera del libro e autore di alcune altre iniziative che hanno contribuito a restaurare un po' l'appeal culturale di Torino, per avere in pillole la fotografia dei giudizi sul marchionnismo.

Vario cotè borghese assiso in un pranzo di ottimo standard piemontese.

Operatori culturali, come si dice, professionisti, dirigenti, qualche bancario di rango. Non si parla d'altro che di Fiat, di classe operaia, di sindacati, di sinistra smarrita. E anche di fatica alla catena di montaggio e radicalismi, di intemperanze, quelle sindacali e pure quelle presidenziali, dopo lo scandalo di un premier in carica della Repubblica italiana che ipotizza come possibile l'incredibile: l'abbandono dell'Italia da parte della sua unica, storica e ineludibile grande azienda manifatturiera per farne una qualunque multinazionale senza patria.

"Est modus in rebus", dice uno che rivendica le forme alla torinese in una vicenda complessa come quella di Mirafiori ai tempi della globalizzazione.

"Siamo nelle mani di un Abruzzo-yankee", chiosa un altro con ben più scarso understatement sabaudo. E' Picchioni che razionalizza l'improvvisato forum gastronomico: "Diciamo che i codici genetici di Marchionne non si confanno molto allo spirito torinese, il marchionnismo ha sicuramente dei termini problematici, se vogliamo con un valore aggiunto di intemperanze stilistiche.

Ma ben venga se opererà contro la desertificazione industriale di questa città".

E' vero, Marchionne non ha nulla a che vedere con il milieu borghese, forse finito con la scomparsa dell'Avvocato. "Persino nell'abbigliamento - nota Berta - Marchionne non rispecchia alcun modello borghese alla torinese, non risponde ad alcun regolamento tradizionale di questa città. E' un apolide sempre in corsa che ha confessato di essere andato dal dentista l'ultima volta qualche anno fa, di notte, e non s'imbarazza neanche a mostrare il buco lasciato da un dente incisivo caduto. Ve lo immaginate a giocare a Golf alla Mandria?" Ma le abitudini personali che si discostano dal classico modello dei riti borghesi contano poco rispetto al cambiamento epocale rappresentato dalla difesa condizionata e non purchessia dell'anima manifatturiera torinese, che ebbe l'ultimo giapponese nella giungla in Andrea Pininfarina, il quale mai volle tradire fino alla fine il cuore metalmeccanico.

Quello di cui Torino ha bisogno come l'aria perché la terziarizzazione "povera" l'ha indebolita in termini di Pil, fino a farle rischiare di finire in quella che Giuseppe De Rita ha battezzato "la mucillagine" del terziario, una palude mesta arenata in termini di crescita.

Milano cresce, Torino, nonostante tutto arretra. In mezzo, Berta colloca una "terra di nessuno" come il vercellese, mentre Novara, patria del governatore piemontese Roberto Cota, è già di fatto nell'orbita milanese.

Affonderà Torino, stretta tra il mondialismo marchionnesco e il radicalismo di un pezzo della classe operaia che rischia di farle perdere la manifattura, di cui la città era e continua ad essere fiera, sia nel mercato di piazza della Repubblica, sia tra i campi di golf della collina? Sergio Chiamparino, il sindaco uscente che si dice ancora incerto tra il pensionamento riscattando gli anni di laurea e la candidatura a leader del centrosinistra, è certo che con Marchionne, il quale insieme a lui ha già salvato la Fiat, Mirafiori risorgerà come grande hub della manifattura innovativa.

Non arretrerà al capitalismo europeo ottocentesco che, come osserva Berta, era rappresentato nella grande letteratura europea, da Balzac a Proust, legato alla finanza più che alla manifattura industriale.

Guarda un po' i paradossi nel giorno del referendum storico. Nel serpentone di cinquemila persone fiaccolate che percorre via Garibaldi, riluce qualche signora in pelliccia confusa tra i metalmeccanici della Fiom dura e pura, tra il popolo del no insofferente ai fasti del marchionnismo. Forse non radical-chic, sincere cultrici della democrazia in fabbrica. Ma il cuore dell'altra Torino non è lì a sfilare con le tute blu arrabbiate.

Fa ressa fuori dalla sala conferenze della Galleria d'arte moderna sotto uno striscione che dice "Sì al lavoro". Forse per la prima volta manifestano qui insieme con identici argomenti sindacalisti e imprenditori, operai e commercianti, artigiani e quadri aziendali. "Non si può dire no a un miliardo di investimento, al migliore accordo che abbiamo fatto negli ultimi anni", proclama Maurizio Peverati, leader della Uilm. Gli fa eco nientemeno che Gianfranco Carbonato, leader dell'Unione industriale torinese: "E' un referendum fondamentale per il futuro della città: se vince il no la nostra regione perderà sette punti di Pil". Ma il no non vincerà. Basta questo per evocare il sindacato giallo degli anni Cinquanta? O l'alieno apolide ha soltanto costretto la vecchia capitale sabauda a confrontarsi realisticamente vis a vis con un novo mondo diverso e forse più crudo?

(14 gennaio 2011)

Scritto da Quotidiano La Repubblica   
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