Genova, un libro ricorda Guido Rossa a 40 anni dalla morte, e diventa anche video
Mercoledì 23 Gennaio 2019 08:12

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Giovedì 24 gennaio, alla Feltrinelli di Genova, alle 18, verrà presentato il libro edito da Castelvecchi “Uccidete Guido Rossa”, scritto da Donatella Alfonso e Massimo Razzi. Assieme agli autori ne parleranno Sergio Cofferati (europarlamentare) ed Emilio Ricci (avvocato, vicepresidente nazionale Anpi). Conduce Marcello Zinola, giornalista. La presentazione avviene proprio nel giorno in cui, 40 anni fa, Guido Rossa fu ucciso. Il libro “Uccidete Guido Rossa. Vita e morte dell’uomo che si oppose alle Br e cambiò il futuro dell’Italia” vuole essere non solo un ricordo di un eroe civile, ma anche far conoscere una stagione di sangue che fu sconfitta grazie all’impegno comune di tutte le forze democratiche. Il volume, edito da Castelvecchi, fa parte della collana Stato d’eccezione, Pp. 192 – Euro 17.50 Di seguito anche un bellissimo video.

Guido Rossa, operaio e sindacalista all’Italsider di Genova Cornigliano, iscritto al Pci, viene assassinato il mattino del 24 gennaio 1979, mentre sta entrando in auto per recarsi a lavoro. Secondo la colonna genovese delle Brigate Rosse, la sua colpa è stata di aver denunciato, tre mesi prima della sua morte, un compagno di lavoro scoperto a diffondere in fabbrica volantini brigatisti. Da quel momento cominciano la solitudine di Guido e i troppi misteri. Era stato deciso solo un ferimento, ma un uomo del commando è tornato indietro per sparare i due colpi mortali: qualcuno nei vertici delle Br gli ha dato via libera? Nonostante le pesanti condanne, Lorenzo Carpi, l’autista del gruppo, non è mai stato arrestato né rintracciato. Dov’è fuggito? E, soprattutto, è stato aiutato? Da chi? Nel movimento operaio genovese – e non solo – quella morte è uno spartiacque che segna il punto di rottura con il percorso delle Br: si rompe la zona grigia tra gli operai e l’area “silenziosa” che è finora rimasta a guardare gli attacchi ai simboli dell’industria e della politica, Aldo Moro incluso.

Donatella Alfonso

Giornalista, ha lavorato per «Il Lavoro» e «la Repubblica». Tra i suoi libri: Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita (Castelvecchi, 2012); Fischia il vento. Felice Cascione e il canto dei ribelli (Castelvecchi, 2014); Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione: nasce il Situazionismo (2017); con Nerella Sommariva, La ragazza nella foto. Un amore partigiano (2017). Premio “Memoria e Verità – Franco Giustolisi” 2017.

Massimo Razzi

Giornalista, ha lavorato a «l’Unità», «Corriere Mercantile», «Il Lavoro», «la Repubblica»; è stato tra i costruttori del sito di Repubblica.it e di RE Le Inchieste. Dal 2012 al 2016 è stato direttore di Kataweb. Attualmente è responsabile dell’area web dell’agenzia di stampa «LaPresse». Ha scritto Il re delle «bionde» (1997). Autore e cosceneggiatore della serie televisiva Il Capitano (Rai 2, 2005).

IL VIDEO

https://video.repubblica.it/rubriche/quelli-che-eravamo/guido-rossa-l-operaio-che-

da-solo-denuncio-le-brigate-rosse/324851/325469?fbclid=

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L’INTRODUZIONE

Scrivere degli anni Settanta e della complessa stagione del terrorismo è, quarant’anni dopo, ancora una scelta non facile. Si tratta di un decennio in realtà vicino e tangibile, visto che molti protagonisti di quei giorni – in questo caso movimenti e soggetti che hanno sempre fatto riferimento alla sinistra, parlamentare o meno – hanno i capelli grigi o bianchi, ma hanno la possibilità ancora di farsi sentire. E possono da- re una loro lettura di quanto è accaduto, specialmente riguardo alla scelta della lotta armata. Effettivamente ci fu un dibattito che la contemplava tra le opzioni possibili. Molti (la stragrande maggioranza) pur capendo la rabbia di quei giorni, la rifiutarono nettamente, altri ne furono sfiorati, altri ancora ne furono inghiottiti. Di questi, una parte oggi è pentita e dissociata, pochissimi sono gli irriducibili, ma non pochi ancora la difendono a volte con convinzione, a volte come si fa con gli errori di gioventù. Ma, dal momento che provocò inutilmente centinaia di morti, dolori immensi e fu rovinosamente sconfitta, la condanna non può che essere ribadita.

Di certo c’è che quegli anni e i loro episodi fondamentali, non sono ancora stati sufficientemente spiegati, nonostante i processi, le testimonianze, i libri, i film e anche le interviste raccolti in quarant’anni, con il rischio che l’immagine che se ne trae resti soltanto parziale o fuorviante. Si tratta di vicende e storie personali e sociali che per un ragazzo o una ragazza di oggi possono essere presentate come un ricordo in bianco e nero adatto a trasmissioni televisive di commemorazione o di analisi, comunque estranee alla vita e alla politica dei nostri giorni, in cui non si ritrovano più neanche i partiti e soprattutto molti dei temi e degli scenari a cui si fa riferimento. Mentre scrivevamo questo libro, ci è capitato di parlarne con dei giovani per scoprire che non solo i fatti sono pressoché sconosciuti, come avvolti in una nebbia temporale, ma anche i nomi dei protagonisti positivi e negativi, non dicono quasi più niente alle nuove generazioni. Ritornarci, cercando ogni volta di aggiungere tasselli alle ricostruzioni esistenti, ci è sembrato dunque anche più utile di quando abbiamo iniziato il progetto.

Lo stesso discorso vale per i cosiddetti “misteri d’Italia”, a partire dal caso Moro, con tutta la loro carica di incertezza e di inquietudini; per la presenza ancora attiva di soggetti diversi e con interessi politici e giudiziari, legami internazionali tutti da chiarire, la verità resta solo parziale.

Molti di quelli che hanno scelto la lotta armata, sentiti anche oggi, dicono che «non c’era altra scelta». Se un giudizio possiamo permettercelo – noi che allora c’eravamo e facevamo politica a scuola e nell’università, o iniziavamo a lavorare – è proprio questo: non è vero che non ci fosse altra scelta. La fecero milioni di lavoratori che decisero di restare pervicacemente nell’alveo della democrazia, di battersi ogni giorno per migliorare la vita di tutti e di non cedere alla scorciatoia delle armi. Non foss’altro perché nessuno seppe mai dare una risposta cre- dibile alla domanda su che tipo di società avrebbero costruito le sedi- centi “avanguardie” una volta preso il potere con le armi. Dove sareb- bero finite le libertà duramente conquistate appena trent’anni prima? Come sarebbe stato conservato e come si sarebbe evoluto un potere eventualmente preso con la forza, uccidendo centinaia di persone del tutto innocenti? I lavoratori e le persone che facevano riferimento ai partiti democratici (tutti) e ai sindacati seppero fermarsi a riflettere un attimo prima di lasciar spazio alla rabbia dalla quale, invece, alcuni si fecero travolgere.

E poi c’è chi non può parlare. Le vittime, quelli che per il loro ruolo, per la divisa che indossavano o anche perché indicati come nemici, in quegli anni sono stati uccisi. Le lapidi imposte dalla lotta armata – non solo di chi si richiamava a ideologie di sinistra; qui sono inserite anche le vittime delle stragi di marca neofascista – sono 370, di cui 38 poliziotti, 20 carabinieri, otto magistrati, sei giornalisti.

Nove di loro morirono a Genova, in quegli anni fortemente radicata a sinistra, amministrata dal 1974 da una delle prime giunte “rosse” con Pci e Psi alla guida; una città industriale e portuale alle prese con le prime grandi crisi di sistema, quelle della grande industria pubblica. Una delle vittime era un operaio, un sindacalista Fiom iscritto al Partito Comunista Italiano. Si chiamava Guido Rossa e fu ucciso il 24 gennaio del 1979 mentre andava a lavorare all’Italsider, dove aveva il suo posto di aggiustatore meccanico e faceva parte del Consiglio di fabbrica, come delegato del reparto Officina. Ma già nei tre mesi preceden- ti, da quando il 25 ottobre del 1978 aveva firmato una denuncia contro un altro operaio, Francesco Berardi, accusato di aver lasciato dei vo- lantini con la sigla delle Br accanto alla macchinetta del caffè in reparto, era diventato un possibile obiettivo dei terroristi.

Fatalmente intorno a lui la solitudine, giorno dopo giorno, cresceva: la mancanza di un sistema di protezione da parte delle forze dell’ordine, l’area grigia di chi parlava di «compagni che sbagliano» o che affermava che «un compagno non si denuncia», l’oggettiva insicurezza di una persona che aveva dalla sua parte solo l’appoggio affettuoso ma anche preoccupato e in buona sostanza inadeguato dei quadri di partito e sindacato, ma soprattutto la profonda e inutile convinzione di tutti che «fino a quel punto non sarebbero mai arrivati».

Al punto di uccidere. Ma la morte di Guido Rossa, gli ultimi spari di Riccardo Dura, ufficialmente non concordati ma più realisticamen- te autorizzati da parte del vertice brigatista, lo smarrimento e la paura che pervadono la fabbrica, confermano che qualcosa, quella mattina di gennaio, è cambiato per sempre. Che quella solitudine che è costata la vita al sindacalista – un uomo sulla cui integrità morale e il senso di responsabilità e dovere nessuno ha mai potuto porre obiezioni – apre la strada al fallimento del partito armato proprio nel luogo su cui i suoi esponenti più puntavano a giocare le proprie carte e a cui più faceva- no riferimento, cioè le fabbriche, il mondo operaio. Una conclusione che allontana nel Paese quel possibile sostegno, silenzioso o meno, al- le strategie brigatiste e che avvia, nello stesso tempo, un vero e proprio cortocircuito nei ranghi delle stesse bande armate.

Non è però il caso di addossare le colpe della solitudine di Rossa a re- sponsabilità precise, a decisioni più o meno avallate. Come raccontia- mo in questo libro e come confermano le testimonianze di tutte le par- ti coinvolte in questa vicenda, ci sono anche da registrare una serie di casualità e un clima fortemente intriso di paura e anche una certa im- preparazione della classe operaia e sindacale ad affrontare una realtà come quella del terrorismo, che sfuggiva a una classificazione netta, benché ufficialmente rivendicata.

Oggi, quarant’anni dopo, la storia di Guido Rossa va raccontata al di là delle immagini fin troppo rituali che ogni commemorazione – spes- so eccessivamente ricca di parole ma svuotata di significati, anche pen- sando al progressivo arretramento della sinistra, che pure ne ha fatto un suo simbolo, nel panorama politico italiano – porta con sé. Ed ecco per- ché questo libro: che non vuole dare giudizi o rovesciare le verità pro- cessuali, ma esporre i fatti, rappresentare le persone da ogni angolo, come devono saper fare i giornalisti, categoria alla quale entrambi ap- parteniamo da quegli stessi quarant’anni che ci dividono da quei gior- ni. E, possibilmente, dare qualcosa di più. Perché quella di Rossa si con- ferma una storia esemplare nella sua semplicità, comprese tutte le con- traddizioni e i lati oscuri che ancora suscitano domande.

Come vedrà chi avrà la pazienza di leggere questo libro, cerchere- mo di esporre fatti e ipotesi (perché alcuni punti chiave di questa sto- ria si prestano a molte diverse interpretazioni) su come e perché gli eventi presero una certa piega. Pochi saranno i nostri giudizi. Uno vo- gliamo darlo qui e riguarda il tema della solidarietà di classe, dell’ap- partenenza alla stessa parte della società che avrebbe dovuto “impedi- re” al “compagno Guido Rossa” di denunciare il “compagno Francesco Berardi”. In quei giorni terribili, questo pensiero circolava e molti se lo ponevano anche in buona fede. Ora, noi crediamo che l’apparte- nenza di classe possa e debba comportare forme di solidarietà, come di- re, “di sangue”. Ma questo, pensiamo, riguarda le scelte condivise o, almeno, quelle che, per quanto estreme, rimangono nell’alveo della democrazia e dell’umanità. Quando si passa a far parlare le armi, l’ap- partenenza di classe non vale più: anche se sei un mio compagno di lotta, non posso coprirti quando decidi di uccidere o di aiutare chi uc- cide. Questo, ne siamo certi, pensò Guido Rossa quando decise di de- nunciare Berardi e su questo siamo perfettamente d’accordo con lui.

La storia di questo omicidio politico coinvolge lui, la vittima, ma anche i terroristi che quella mattina lo aspettavano a pochi passi da casa. Da una parte e dall’altra, infatti, c’erano persone, ognuna con la pro- pria vita e le proprie scelte: e le loro vicende hanno fatalmente coinvolto familiari, amici, per i quali tutto quanto rappresentava la vita prece- dente a quei fatti è fatalmente cambiato dopo quei momenti.

Oltre che alla fabbrica e ai suoi protagonisti, ascoltati per capire cosa davvero significasse fare parte della classe operaia alla fine degli anni Settanta, abbiamo scelto di dare spazio alla storia di Lorenzo Carpi, terzo componente del “gruppo di fuoco” Br del 24 gennaio 1979: uno studente di Medicina entrato in clandestinità solo negli ultimi mesi prima di scomparire da Genova alla fine del 1980, mai arrestato, mai segnalato in Italia o all’estero nonostante le pesanti condanne che ha su di sé. Nei capitoli dedicati a questa latitanza infinita, e alle ipotesi che stanno dietro alla sua decisione senza ritorno, abbiamo scelto la scrittura in prima persona, visto che uno degli autori di questo libro – Massimo Razzi – lo ha conosciuto e frequentato per anni, prima che il futuro brigatista scegliesse di passare dall’altra parte, quella della violenza. Ci siamo interrogati sui modi e le ragioni di questa lunghissima assenza, ma anche sulle sue eventuali ricerche svoltesi o meno fino ad ora: perché quello di Carpi si dimostra non l’unico, ma uno dei casi più “dimenticati” nella lunga storia dei protagonisti della stagione del- la lotta armata in Italia.

E poi c’è, vera protagonista e non solo scenario, Genova. La città che ha rifiutato il troppo facile quanto scomodo titolo di “capitale delle Bri- gate Rosse”, ma che è stata teatro di tante, troppe prime volte nella stra- tegia del terrorismo. Una città che tra il 1974 e il 1982 ha contato 93 atti terroristici, terza dopo Milano e Torino a segnare con la dramma- tica contabilità del sangue ogni volta che le armi hanno sparato. Ma al- trettante prime volte Genova le ha avute anche nella sua storia repub- blicana e civile, dalla Liberazione – unica città a liberarsi dagli occu- panti nazifascisti il 24 aprile del 1945 grazie all’azione dei partigiani e dei resistenti del Cln – in avanti. Fino al giorno dei funerali di Rossa, con 250 mila persone in silenzio sotto la pioggia, con la consapevolezza che tutto, ancora una volta, stava cambiando.

E sono i suoi luoghi, la sua gente, le tensioni di quei giorni, para- digmatiche di un Paese intero che ancora non riesce a ritrovare – an- zi, rischia di smarrirne i capi – un unico filo di costruzione della pro- pria storia e del proprio futuro, che abbiamo cercato di riportare in queste pagine.

Perché tutto comincia sempre da Genova.

Gli autori

Scritto da Donatella Alfonso e Massimo Razzi   
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