Ministro in mutande
Venerdì 02 Agosto 2019 16:20

Infradito, bermuda e toni esasperati. Il combinato disposto di onnipotenza e paura che va in scena al Viminale Beach rivela che Salvini ha perso, sin dal giorno dell’audio russo, la sicurezza di essere l’unico padrone del suo destino

Ansa

Mai si era vista una conferenza stampa in bermuda, costume, insomma in mutande o come diavolo volete chiamare l’abbigliamento di Salvini al Papeete Beach, trasformato nella sede estiva del Viminale. Metafora poco metafora, di una continua commedia dell’assurdo entro cui si muove e fa muovere il suo universo politico. E davvero non si capisce perché i giornalisti debbano scarpinare nella sabbia calda, per assistere al puro teatro del ministro desnudo, in infradito e infastidito dalla camicia sbottonata fino all’ombelico, che dopo un po’ scompare per esibire il petto volitivo ai selfie.

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È un combinato disposto di onnipotenza e paura quello che va in scena al Viminale Beach, nelle invettive ai giornalisti, nei toni sopra le righe, nelle battute da bar di provincia per fuggire alle domande sul tema che più lo angoscia, la vicenda russa, proprio nel giorno in cui trapela dalla Procura che sarebbe italiana la

“manina” della famosa registrazione al Metropol. Il che alimenta domande inquiete e ipotesi complottarde su chi l’abbia eterodiretta. Ecco, l’onnipotenza di chi si considera al di sopra delle regole e la sindrome da assedio di chi sa che l’enorme Potere conquistato in poco tempo può precipitare in fretta. È in questo binomio psicologico l’enorme nervosismo che gli applausi della claque non riescono a coprire, nel compiacimento collettivo del ministro-bagnante che esaspera l’estetica dell’uomo della porta accanto, che parla come “uno di noi”, “va al mare come gli altri”, beve birra e ha il figlio che fa le bravate. E manda al diavolo i rompiscatole.

Salvini è, evidentemente, nervoso, incattivito, privo di quel tratto fintamente bonario da “barbaro col sorriso”. Guardatelo bene, non sorride più e non fa più sorridere. Il ragazzo della porta accanto ha acquisito la cupa gravitas di un leader bielorusso, con la barba più grigia che rivela la perdita della spensieratezza. Non si scusa per il figlio, ma inveisce contro il videomaker che aveva ripreso Federico, bello di papà, farsi scorrazzare in mare su uno scooter ad acqua della Polizia di Stato, come in un parco giochi acquatico: “Vada a riprendere i bambini visto che le piace tanto”. Come se il problema fosse la ripresa e non la violazione, e che quel ragazzo non fosse il figlio del responsabile della Sicurezza nazionale. Perde le staffe alla parola Savoini, che evoca l’angoscia dell’ignoto. Sempre più di incapace di trattenersi, affida l’esibizione di forza al turpiloquio rivolto al ministro dell’Interno tedesco che ha “rotto le palle” e alla “zingaraccia” che avrebbe alluso a un proiettile contro di lui su cui “arriverà la ruspa”. Solita benzina che infiamma e sdogana gli animi razzisti del paese, perché se il titolare dell’ordine pubblico parla così, in parecchi si sentono legittimati a togliere i freni all’insofferenza verso “gli zingari”.

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La novità non è l’essere sopra le righe, il battutismo, l’esprit populista che rompe il politicamente corretto e la civiltà istituzionale, ma il parossismo dei toni proprio di chi esaspera perché ha perso, sin dal giorno dell’audio russo, la sicurezza, caratteristica fondamentale per chi si pone come l’uomo d’ordine fino alla brutalità. La sicurezza di essere, come fino al dopo-europee, l’unico padrone del suo destino e delle sorti politiche del paese, senza di il timore di perdere, assieme al Viminale, uno scudo sempre utile in una situazione delicata, in cui si addensano i fantasmi del complotto, le ombre dell’inchiesta della procura di Milano, gli sviluppi su Siri. Nel consueto spartito di una crisi minacciata ma mai aperta, nei consueti penultimatum di giornata, in questo abbaiare senza mai mordere, c’è la consapevolezza che l’alternativa elettorale non è più, fino in fondo, nelle sue disponibilità. E non solo per tutta una serie di ragioni logiche e visibili: le famose “finestre elettorali” chiuse, l’imminente sessione di bilancio, la calendarizzazione, alla ripresa, della riforma dei parlamentari che gli conviene e non poco perché, a legge elettorale vigente, ne aumenta a dismisura l’influenza. E, dunque, meglio approvarla e aspettare che entri in vigore dopo sei mesi senza far saltare il tavolo.

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In fondo, ci sarebbero state tante altre buone ragioni per fare l’opposto, sfruttando l’enorme consenso raccolto alle Europee. Nella rinuncia a cogliere l’attimo c’è un qualcosa che con la logica non si afferra ma che forse il nervosismo odierno spiega: l’uomo forte dà l’idea di non controllare più la situazione, di percepirsi in una terra ignota che suggerisce di non lasciare il Viminale. Insomma, avverte la pressione e si sente meno libero di scegliere e di rischiare. È una novità non di poco conto per un leader che in così poco tempo ha conquistato così tanto potere, anche con una relativa facilità e con l’illusione che tutto è lecito. È la scoperta di un limite, di una “nudità” da accettare e non da esibire.

Scritto da By Alessandro De Angelis   
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