IL DELITTO PASOLINI
Venerdì 14 Aprile 2023 07:19

Atlantide - Pasolini, il caso è aperto (parte 2)

https://www.la7.it/atlantico-pacifico/rivedila7/atlantide-pasolini-il-caso-e-aperto-parte-2-13-04-2023-480304

https://www.flickr.com/photos/22523260@N04/albums/72157689083673755

https://www.flickr.com/photos/22523260@N04/albums/72157633175074741

https://www.flickr.com/photos/22523260@N04/albums/72157648342190144

https://www.flickr.com/photos/22523260@N04/albums/72157627085058254

 

Valter Veltroni rievoca la figura dello scrittore,

poeta e regista bolognese: lo muoveva il desiderio di verità e

giustizia. Rifiutò ogni

moralismo: libero e indipendente oltre i recinti

337.0.1067826997-k0ZH-U3410509438130OG-656x492Corriere-Web-Sezioni

 

Pier Paolo Pasolini sul set de «La ricotta» (1963, @ArchiviFarabola )

GENTILISSIME/I, 

abbiamo allegati i link di foto  relizzate durante la lunga frequentazione del Centro studi pasoliniani di Casasarsa della Delizia (Pn). Il Centro diretto dalla prof.ssa Angele Felice, ebbe il merito di far rivivere Pier Paolo, nella casa dell'amatissima mamma. Meta di intellettuali di tutto il mondo, di personaggi famosi che avevano lavorato con Pasolini e capito la grandezza dell' intellettuale, poeta e scrittore. L'arte espressiva del cinema lo affascinava e lo assorbiva totalmente. Orfani delle scrittore, delle sue poesie, delle sue intuizione, l'Italia si è impoverita culturalmente. Antifascista militante, vittima di intimidazioni, in particolare della banda della Magliana, attaccato dalla stampa borghese e dai poteri forti, sapeva! Ma non aveva le prove, di tutti i fatti che, avevano insanguinato il Paese, sapeva da tempo della P2 di Licio Gelli, mandante dela strage della Stazione di Bologna. Vennne ucciso a Novembre del 1974, il 28 maggio la strage neofascista di Piazza della Loggia a Brescia. Pasolini è stato il testimone chiave, attraverso il libro Petrolio, della vicenda ENI e dell' avvento di Cefis, dopo il probabile attentanto all' aereo di Enrico Mattei. Moravia dirà ai suoi funerali: è stato ucciso un poeta, ne nascono in un secolo due o tre.

Abbiamo appreso ieri sera che le destre di governo non partecipano ai dibittiti a Piazza Pulita, viene impedito dai vertici di Fratelli d'Italia e la Lega, di non partecipare alla vita democratica del Paese. Nessun confronto, ne scambio di idee. Un governo blindato che pur avendo accettato la Costituzione italiana, nei fatti la svilisce, la offende. La Costituzione nata dalla guerra di liberazione dai nazi-fascisti. Auspichiamo che intervenga il Presidente Sergio Mattarella, il 25 aprile. L'Italia è il Rinascimento, la letteratura, la storia, il risorgimentale, nessuna azione dall' esterno può cambiare la realtà dei diritti, conquistati con il sangue e a caro prezzo. L'ANPI, i Progressisti, l'Associazionismo devono vigilare, costringere il governo, le istituzioni a dialogare e misurarsi con tutti. L'Italia è avanti rispetto all'Ungheria e a Visegrad.    

«Se sono indipendente, lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza. E dunque se mi preparo a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore, è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine. Ed è questo, del resto, che mi garantisce una certa, magari folle e contradittoria, oggettività. Non ho alle spalle nessuno che mi appoggi, e con cui io abbia interessi comuni da difendere».

Eccola, l’indipendenza e la libertà di Pier Paolo Pasolini. Quella che mi sembrerebbe giusto definire la sua «irregolarità». Tanto più difficile e rara perché Pasolini ha vissuto interamente il tempo delle grandi divisioni storiche e, conseguentemente, dei grandi recinti. Quelli fortificati, talvolta elettrificati dalle ideologie maestose del Novecento, che informavano vita e pensiero di milioni di persone in tutto il mondo.

casarsa

STAZIONE DI CASARSA

Le ideologie. Sistemi chiusi, apparentemente inossidabili, dai quali liberarsi o anche solo scostarsi era pericoloso. Pericoloso anche per chi, intellettuale, ha scelto di vivere tutta la propria esistenza in ragione del proprio pensiero e della propria ricerca. Pasolini, almeno il saggista, avvertiva il dovere etico di coniugare questa scelta con l’autonomia del proprio itinerario di studio e di scavo della ragione delle cose. Non era un piffero, e neanche un pifferaio; non voleva esserlo. La radicalità della sua scelta, il dichiararsi come farà fino agli ultimi giorni della sua vita, un «comunista», non era per lui, non poteva e non doveva essere, un limite alla sua libertà di dire ciò che il suo pensiero, e solo quello, gli suggeriva. Ho detto «solo quello». Intendendo, con ciò, che in Pasolini ogni cosa era il prodotto della sua ragione e delle speculazioni intellettuali della sua mente meravigliosa. E che ogni cosa nasceva dalla sofferenza di una vita personale che, anch’essa, superava i recinti e le convenzioni. C’è il dramma della sua vita, nella ferocia di queste libertà difese e volute.

PIERPAOLO

Dirà nel 1969: «Io sono completamente solo. E, per di più, nelle mani del primo che voglia colpirmi. Sono vulnerabile, sono ricattabile. Forse, è vero, ho anche qualche solidarietà: ma essa è puramente ideale. Non può essermi di nessun aiuto pratico». Ne parlerà ancora in un articolo in cui dialoga, non senza amarezza, con il suo amico Alberto Moravia a proposito del consumismo. Sono parole che commuovono, anche oggi: «In quanto cittadino, è vero, ne sono toccato come te, e subisco come te una violenza che mi offende (e in questo siamo affratellati, possiamo pensare insieme a un esilio comune): ma come persona (tu lo sai bene) io sono infinitamente più coinvolto di te. Il consumismo consiste infatti in un vero e proprio cataclisma antropologico: e io vivo, esistenzialmente, tale cataclisma che, almeno per ora, è pura degradazione: lo vivo nei miei giorni, nelle forme della mia esistenza, nel mio corpo. Poiché la mia vita sociale borghese si esaurisce nel lavoro, la mia vita sociale in genere dipende da ciò che è la gente».

E a un altro amico come Italo Calvino, che aveva polemizzato con lui sull’aborto, vedendo nella sua posizione un rimpianto per l’Italietta di un tempo, dice: «Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva… L’Italietta è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi, che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni».

pasoli4

Il rimpianto per la «gente» che ha conosciuto lungo il turbine della sua esistenza diviene così, nelle sue parole, rimpianto tout court per una civiltà, quella preindustriale o, meglio, preconsumistica, fatta di lavoro duro, di legami e valori forti, di tradizioni, anche religiose, di dialetti.

La sua paura, il suo terrore, è l’omologazione che rende tutto indistinguibile, che travolge radici e differenze e prefigura una sorta di homo novus nella figura del consumatore. «Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della società dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però è rimasto lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è completa… Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di “un uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane».

Per Pasolini l’omologazione prodotta dal fascismo riguardava esclusivamente la sfera dei coartati orientamenti politici. Quella della società opulenta ha invece un profilo ben più profondo, di tipo antropologico.

È il tema dell’apologo delle lucciole.

«Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta)».

Nove mesi prima di essere ucciso, Pasolini, in una sola frase di questo memorabile articolo, racchiude le ragioni dell’inverno del suo scontento: le lucciole sterminate dallo sviluppo, i giovani che non sono identificabili con l’autore da cucciolo, e neanche la possibilità dei bei rimpianti di una volta

Le lucciole sono tornate, i giovani è giusto che non siano come i loro antenati e i rimpianti hanno sempre la dolente, meravigliosa lucentezza che meritano. Sembra proprio non aver ragione, Pier Paolo. Lo vedremo.

Ciò che appare è che Pasolini sia dominato dalla nostalgia, dalla convinzione che il progresso stia recando una quantità insopportabile di contraddizioni, di squilibri. Più che vedere il futuro, che gli sembra compromesso — tanto che citerà la solitudine come l’unica forma di lotta restata disponibile — Pasolini spera che sia la denuncia della borghesia come agente corruttore del tempo, una borghesia da processare in perpetuo, a poter scuotere le coscienze. La nostalgia per un tempo perduto, un tempo non va dimenticato di terribili ingiustizie e diseguaglianze, si sposa con il desiderio di affermare idee di progresso, di riscatto degli ultimi. È l’incarnazione, letteraria, dell’apparente ossimoro politico: «conservatore e rivoluzionario».

5888173638 17ef75ac82 c

Pasolini, nella fase finale della sua vita, è immerso nel nero. Tutto gli sembra chiudersi. Ha girato un film, Salò e le 120 giornate di Sodoma, che gronda dolore e disperazione. È un’opera bellissima sul senso della morte di una società e sulla sua morbosa decomposizione. Un film girato poco prima di essere ucciso, che non contiene ovviamente alcun presentimento, ma un presagio di fine collettiva.

Un po’ come successe a Stanley Kubrick che, con Eyes wide shut, poco prima di essere stroncato da un infarto, aveva vaticinato, con l’attualizzazione del Doppio sogno di Schnitzler, le linee di frattura delle moderne relazioni umane.

Per ambedue il sesso veniva ora usato non per raccontare una gioia libera e beffarda, come nella trilogia della vita di Pasolini, o per indulgere nel mistero sensuale di Lolita di Kubrick, ma veniva utilizzato in una forma di meccanica e crudele carnalità, quasi animalesca. E poi Pier Paolo si era infilato, con tutta la sua infinita passione civile, nella vicenda di Petrolio, un romanzo nero fin dal titolo, che era una specie di quella che oggi si direbbe una «docufiction», qualcosa a metà tra Truman Capote e i moderni racconti di realtà e storia ricostruiti per le piattaforme globali. L’Eni di Cefis era un groviglio di melma, il crocevia di affari e complotti, una zona che sembrava inviolabile, se non dal coraggio di giornalisti e intellettuali. Ma Pasolini, come è noto, non aveva paura. Lo muoveva un fuoco vero, sincero, un desiderio di verità e giustizia. Ne parla nel suo articolo del primo febbraio del 1975 sul «Corriere della Sera», il giornale che aveva il coraggio di ospitare le sue opinioni.

È l’articolo oggi conosciuto con due monosillabi che grondano bisogno di verità: «Io so».

«Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero».

«E se l’intellettuale viene meno a questo mandato — puramente morale e ideologico — ecco che egli è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore». Pasolini non voleva essere un traditore di se stesso. E anche per questo non ha mai avuto paura di navigare controcorrente, anche quando il fiume era quello dove lui si sentiva più naturalmente a casa. Ma non nascose mai, però, la sofferenza per le critiche. Il fuoco amico ricevuto.

Come dopo la lettera su Valle Giulia del 1968, quella nella quale — lui che della repressione poliziesca era stato vittima e sempre l’aveva denunciata — ricordava l’origine proletaria dei ragazzi in divisa. Il titolo di un settimanale: «Vi odio, cari studenti», che riduceva, stravolgendola e giustiziandola, la complessità del messaggio sacrosanto contenuto nella poesia «Il Pci ai giovani» pubblicata su «Nuovi Argomenti» produsse un’ondata di facile indignazione. Fu lapidato con pietre fatte di parole e accuse. Si sentì — gli era capitato e gli ricapiterà — messo alla gogna. Ne parlerà più avanti così: «È nata insomma una divisione terroristica tra “giusti” e “reprobi”: che non è soltanto moralistica, e ha quindi perduto ogni rito e fair play. No, verso il “reprobo”, il giusto sente un’antipatia fisica così forte che benché magari suo conoscente da anni (e, fino al giorno prima, appartenente a una stessa generica cerchia sociale con analoghe idee politiche), sente quasi una sorta di ripugnanza; non gli stringe la mano; lo evita; gli gira al largo; gli prepara intorno una specie di clima da linciaggio».

Gli capiterà ancora, per l’articolo pubblicato sul «Corriere» a proposito dell’aborto. In questo caso il titolo corrisponde al contenuto del suo articolo, che dopo poche righe recita: «Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché lo considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano — cosa comune a tutti gli uomini — io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente».

pasolini1

In questo caso Pasolini usa la scimitarra e mena anche colpi a caso. Le parole sembrano travalicare il suo stesso pensiero che poi, leggendo tutte le correzioni successive in replica alle polemiche, è così riassumibile: l’aborto è sempre e comunque un dramma, voluto da una società che criminalizza il coito e la libertà sessuale, ignora e demonizza la contraccezione e affida solo all’interruzione della maternità la regolazione delle nascite.

Ha scritto Pasolini, che in verità mostra di non considerare mai centrale la volontà della donna di decidere del suo corpo: «Il contesto in cui va inserito l’aborto è quello appunto ecologico: è la tragedia demografica, che, in un orizzonte ecologico, si presenta come la più grave minaccia alla sopravvivenza dell’umanità. In tale contesto la figura — etica e legale — dell’aborto cambia natura: e, in un certo senso, può anche esserne giustificata una forma di legalizzazione».

«La ragione di queste cose terribili che dico è chiara: un tempo la “specie” doveva lottare per sopravvivere, deve fare in modo che le nascite non superino le morti. Quindi, ogni figlio che un tempo nasceva, essendo garanzia di vita, era benedetto: ogni figlio che invece nasce oggi, è un contributo all’autodistruzione dell’umanità, e quindi è maledetto».

Ho citato queste frasi, dal più controverso dei suoi temi, per dire che nelle posizioni di Pasolini, anche le più estreme, le più irregolari, anche le meno condivisibili, c’è sempre qualcosa che merita di essere compreso. Dalla vetta del suo pensiero, agito dal suo dolore di uomo perseguitato, il poeta vedeva cose che lo spirito del tempo rimuoveva. Quando diceva che sviluppo e progresso si andavano pericolosamente separando o quando segnalava il rischio di una omologazione culturale e linguistica aveva forse torto, guardando a ciò che è successo dopo la sua ancora inspiegata morte per assassinio?

E non aveva torto neanche quando, discutendo con Calvino che si augurava di non incontrare mai un giovane fascista, diceva: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo fare di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno — quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità — ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso».

Pasolini era un uomo di sinistra, carico di contraddizioni e di amore per le ragioni della sua identità politica e delle sue scelte ideali. Non era, dal punto di vista della pratica delle idee, un «indipendente». Era schierato, eccome.

«Odio — come tante volte ho detto — l’indipendenza politica. La mia è quindi un’indipendenza, diciamo, umana. Un vizio». Ma era, ed è sempre stato, un uomo che ha rifiutato il moralismo, la demagogia, le parole dette per piacere.

Concludo con altre sue parole: «Ma come si è, in questa lontana Italia, implacabili e furenti facendo del moralismo. Dunque, demagogia e moralismo. Il vero contenuto della demagogia è la demagogia. Il vero contenuto del moralismo è il moralismo. Ogni demagogia vale dunque ogni altra demagogia, e ogni moralismo vale ogni altro moralismo».

Pasolini, con il suo doloroso essere irregolare, ha combattuto molti vizi nazionali: l’illegalità, lo stragismo, la corruzione, le discriminazioni sessuali, il conformismo. E poi, sì, ha avversato anche le cure che altro non sono che smaliziate sorelle delle malattie: la demagogia e il moralismo.

Per tutto questo, la sua «irregolarità» non è stato un vezzo pour épater, ma la sostanza di una sofferenza e di una ininterrotta, sincera, ricerca intellettuale.

maepa

ARPAIA MARIO

Una libertà che ci manca.

Roma, all’Accademia dei Lincei. Il convegno sui generi

Un autore che ha attraversato quasi tutti i generi letterari e artistici, e in questo è stato un unicum nel Novecento: appunto a Pier Paolo Pasolini e l’attraversa-mento dei generi è dedicato il convegno dall’Accademia dei Lincei, oggi e domani, a Palazzo Corsini (anche in streaming su lincei.it/it/live-streaming-lincei-primo-canale). I lavori si aprono oggi, ore 10, con i saluti del presidente dei Lincei, Roberto Antonelli, e proseguono analizzando i generi visitati da Pasolini: studiosi e autori parleranno di poesia, cinema, romanzo, ma anche di dramma barocco, ricerca narrativa, rapporto con l’antico. Oggi intervengono Franco Zabagli, Maria Careri, Franco Brevini, Maria Bastianes e Andrès Catalàn, Andrea Cortellessa e il regista Mario Martone, Enrico Medda, Piero Boitani e Riccardo Antonangeli. Domani gli interventi di Silvia Carandini, Anna Dolfi, Marco Belpoliti e Walter Veltroni. (i. bo.)

 

15 marzo 2023 (modifica il 15 marzo 2023 | 22:07)

 

Scritto da Atlantide-Veltroni-Arpaia   
Stampa