La storia di 10 anni di terrore a Milano e in Lombardia
Giovedì 30 Marzo 2017 15:39

 

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Antonio Iosa

La storia di 10 anni di terrore a Milano e in Lombardia : la nascita delle brigate rosse  e l’intitolazione, nel 1977, della colonna brigatista a “ Walter Alasia”

 

Premessa: la infausta data   “ 28 Marzo”

 

Per me il 28 marzo del 1980 è stata una data funesta, perché mi ricorda l’azione di rappresaglia avvenuta a Milano, il primo aprile 1980, giorno in cui sono stato gravemente ferito nel corso dell’ attentato terroristico ad opera della colonna milanese delle brigate rosse “Walter Alasia”.

La Brigata 28 Marzo – Guerriglia Rossa nacque a Milano e faceva specifico riferimento alla data dell’irruzione dei carabinieri dell’Antiterrorismo nel covo di via Fracchia a Genova, ove furono uccisi quattro terrroristi della colonna brigatista: Lorenzo Bettassa, Piero Panciarelli, Annamaria Ludmann e Riccardo Dura.

Quest’ultimo era l’uccisore spietato di Guido Rossa, il sindcalista del Pci della fabbrica genovese dell’Ansaldo.

La Brigata 28 Marzo era pertanto un gruppo di fuoco composto da Marco Barbone, Paolo Morandini, Daniele Laus, Francesco Giordano, Manfredi Di Stefano e Mario Marano e avevano come obiettivi mirati l’ uccisione di vittime innocenti, per vendicare i terroristi genovesi.

Fu però un commando di terroristi rossi della “Walter Alasia” a vendicare per prima, il 1° Aprile 1980, i terroristi genovesi, sparando a quattro innocenti democristiani.

Toccò poi alla Brigata 28 Marzo compiere un vile attentato il 28 Maggio 1980, alle ore 11, in via Salaino, contro Walter Tobagi, editorialista del Corriere della Sera per vendicare i terroristi genovesi.

Gli autori materiali dell’uccisione del giornalista a Milano furono Marco Barbone e Mario Marano.

 

***

 

L’attentato del 1° Aprile 1980 e il mio ferimento da parte dei brigatisti “W. Alasia”

 

Quatro giorni dopo l’uccisione dei terroristi nel covo di via Fracchia a Genova avvenne un’azione di rappresaglia contro una sezione periferica della Democrazia Cristiana a Milano.

Nonostante le operazioni dell’Antiterrorismo e gli arresti seguiti nelle varie parti d’Italia tra il 1978 e il 1979, le brigate rosse, La Prima Linea ed altri gruppi minori di fuoco erano tragicamente attivi all’inizio degli anni ottanta.

La sera del 1° Aprile, quattro terroristi, imbavagliati e incappucciati, armati di tutto punto, fecero irruzione in una sezione periferica della Dc in via Mottarone, 5 a Milano e gambizzarono, dopo un allucinante processo ed esproprio proletario, quattro democristiani: Eros Robbiani, Emilio De Buono, Nadir Tedeschi e Antonio Iosa.

Oggi gli ultimi due sono ancora in vita, mentre i primi due sono deceduti.

Dopo il mio ferimento del 1° aprile, avrei voluto costituirmi parte civile nel processo contro i brigatisti, che mi avevano sparato alle gambe e ferito gravemente ed, erano fra l’altro autori di ben 8 omicidi per i quali sono stati riconosciuti, anni dopo, colpevoli e condannati all’ergastolo.

Interpellai dapprima il giovane avv. Salvatore Catalano, che dirigeva il dipartimento giustizia della Dc di Milano.

In un primo momento sembrava disponibile ad assistermi nel processo come parte civile, mai poi ci ripensò, adducendo due motivazioni:

la prima che, come responsabile del dipartimento legale della Dc, potesse entrare nel mirino dei terroristi.

La seconda motivazione era la previsione dei tempi lunghi del processo e del rischio di dare ai terroristi una platea di ulteriori attacchi politici alla Dc, con i loro deliranti proclami, che emettevano anche dal carcere per accusare il partito di ogni nefandezza.

Mi rivolsi anche all’avv. Marcello Gentili, che pur era stato protagonista di storici dibattiti, come quello con la Comunità di don Enzo Mazzi dell’Isolotto di Firenze, nella sede del mio circolo culturale “il Perini” a Quarto Oggiaro. Conoscevo l’avvocato Gentili in quanto attivo collaboratore del Centro “Nuova Corsia” di P. David Maria Turoldo, col quale collaboravo in una sorta di gemellaggio per trasferire alcuni significativi dibatitti di promozione umana, sociale e cristiana dalla Nuova Corsia in centro, al Circolo culturale Perini in una periferia di proletariato e sottoproletariato urbano.

Volevo verificare se il suo studio legale, noto per avere una linea di apertura conciliare qlle “comunità ecclesiali di base”, oltre a difendere i terroristi, potesse difendere anche una vittima come me.

La risposta fu dissuasiva per questi tre motivi.

Il primo perché non valeva la pena costituirsi parte civile contro imputati, che risultavano giovani nullatenenti e, quindi, senza alcuna speranza di risarcimento danni e poi erano terroristi pericolosi, anche dal carcere.

Il secondo perché bisognava anticipare almeno tre milioni di lire di allora per seguire il processo molto lungo per le numerose sedute e bisognava acquisire le fotocopie di tutti gli atti processuali.

Il terzo perché, avendo un alone di rispettabilità professionale nel difendere i terroristi, non se la sentiva di contraddirsi difendendo, come parte civile, anche una vittima, benchéi miei feritori non fossero suoi clienti d’ufficio.

Fui, pertanto, sconsigliato di costituirmi parte civile, perché non avrei ricavato il classico“ragno dal buco” e mi sarei esposto ad ulteriore rappresaglia.

Da allora ho sempre avuto il vago sospetto che l’avv. Marcello Gentili amasse più i terroristi alla Marco Barbone e solidarizzasse più per Adriano Sofri e Lotta Continua, che per i gambizzati.

E così mentre i terroristi avevano i migliori penalisti a difesa, che prestavano, spesso gratuitamente, il loro esercizio professionale, le vittime faticavano a fare valere i loro diritti civili e di testimonianza morale in Tribunale.

Non mi fu, pertanto, possibile essere testimone scomodo al processo come parte civile e fare valere non tanto diritti risarcitori, ma di testimonianza umana e morale per contrastare l’irrazionalità della lotta armata, in un Paese democratico, fondato sulla Costituzione Repubblicana e la democrazia.

Rinunciai, a malincure, di costituirmi parte lesa.

 

La nascita delle brigate rosse

Nel 1968/69 entrò in crisi la società industriale dove si contrapponevano lavoratori e padroni.

Tale crisi travolse le tradizionali gerarchie e il sistema politico a guida trentennale della Democrazia Cristiana.

Nacque così la teorizzazione della lotta armata per sovvertire l’ordinamento della Costituzione Repubblicana e il sistema democratico. La rivoluzione marxista-leninista s’illuse di vincere e di sovvertire l’ordinamento costituzionale dello Stato.

I nuovi movimenti portatori di fanatica violenza, rivendicazioni e lotte sfociarono in una strategia di rottura sociale, praticando l’assassinio politico e contestando posizioni riformiste ed esperienze dei gruppi politici della sinistra extraparlamentare sessantottina del biennio 1968/69 e che avevano tentato di istituzionalizzarsi con la fondazione del partito di Democrazia Proletaria.

La nascita delle brigate rosse risale in nuce al Movimento studentesco trentino, che nel 1969

votò una mozione a favore di una esaltazione e fervore rivoluzionario condivisa da Renato Curcio, Mara Cagol, Duccio Berio, Giovanni Mulinaris, Giorgio Semeria e Paola Besuschio, che diedero origine alle brigate rosse.

Tra i firmatari il veneziano Marco Boato e il torinese Mauro Rostagno(ucciso poi dalla mafia in Sicilia), che furono fondatori e leader di Lotta Continua.

Nel settembre del 1969 Renato Curcio, giunto a Milano, costituì in via Tortona il “Collettivo Politico Metropolitano”, che si saldava alle rivendicazioni contrattuali sindacali delle masse operaie dello “Autunno caldo” e alla contestazione del Movimento studentesco sorto nel maggio del 1968.

La strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 impresse una forte accelerazione al progetto di vendetta proletaria per dare inizio alla lotta armata, contro il pericolo di golpe neofascisti.

Nella primavera degli anni ’70, le brigate rosse avevevano il loro nucleo storico costituito da Renato Curcio, Margherita Cagol detta “Mara”, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari ai quali si unirono Raffaele De Mori e Mario Moretti; Duccio Berio con la fidanzata Silvia Malagugini; Italo Saugo, collegato ai Gap di Feltrinelli e l’ex contrabbandiere Marco Pisetta.

Di rilievo fu la componente cattolica rappresentata da Franco Troiano, Maurizio Ferrari, Arialdo Lintrami, Giorgio Semeria, Giulia Archier e il fidanzato Sandro, Tonino Paroli, Attilio Casaletti, Roberto Ognibene, Fabrizio Pelli e dagli ingegneri dell’IBM, guidati da Corrado Simioni.

La prima colonna rivoluzionaria, denominata “ Gruppo XXII Ottobre”, era sorta a Genova alla fine del 1969, alla quale si collegarono i G.A.P. (Gruppi Armati Proletari) di Giancacomo Feltrinelli, come seconda

formazione clandestina, tra aprile e maggio 1970.

Tra il 4 e il 9 agosto 1970, la sinistra proletaria a Pecorile, un paesino della provincia di Reggio Emilia, tenne un convegno decisivo per il passaggio alla clandestinità e alla lotta armata.

A Milano le br apparirono, per la prima volta, a fine agosto 1970 nello stabilimento milanese Sit-Siemens in piazzale Zavattari, ove furono rinvenuti volantini ciclostilati firmati con la stella a cinque punte e l’azione di diffusione fu replicata nello stabilimento dell’azienda stessa a Settimo Milanese.

Il 17 settembre 1970 fu dato fuoco al garage del dirigente della Siemens Giuspeppe Leoni.

Il 27   novembre fu incendiata l’auto di Ermanno Pellegrini, capo dei servizi di vigilanza della Pirelli Bicocca.

L’8 dicembre quella di Enrico Loriga, altro dirigente della Pirelli.

La logica terrorista era quella di colpire i personaggi delle fabbriche più invisi agli operai per far crescere dal basso e dalle lotte di classe le azioni rivoluzionarie, che si svilupparono, analogamente, anche nelle fabbriche di Torino e di Genova.

Nella primavera del 1971 l’editore Feltrinelli (Osvaldo e Saetta) s’incontrò periodicamente con i capi delle brigate rosse per coordinare la lotta armata in Italia attraverso una piattaforma politica, strategica e tattica, tenendosi collegato anche con Valerio Morucci, che era il capo militare di Potere operaio e che conobbe l’editore a fine dicembre 1971 nella sua villa austriaca.

La collaborazione cessò 3 mesi dopo, quando il 14 marzo 1972, l’editore Feltrinelli fu trovato cadavere, dopo avere messo alla base del traliccio 15 candelotti di dinamite. La storia narra che mentre Feltrinelli si arrampicava sulla struttura per piazzare l’ordigno a tempo gli scoppiò, per imperizia, tra le mani e il suo corpo rimase dilaniato nel tentativo di fare saltare il traliccio ad alta tensione nella campagna di Segrate.

Tra Potere Operaio, dal 1970, ci fu un’assidua collaborazione con Feltrinelli, in una sorta di “Stati maggiori comuni”, pur tra reciproche diffidenze.

Dall’inizio degli anni ’70 l’eversione e la violenza politica di estrema destra e di estrema sinistra furono protagoniste assolute per intensità e pericolosità.

Entrambe miravano a sovvertire l’ordinamento costituzionale dello Stato Democratico con l’obiettivo di scardinare gli equilibri politici italiani con una incandescente tensione e mobilitazione di massa, fatta di scontri, di minacce scritte, di violenze verbali, di rapine, di sequestri, di espropri proletari, di rifornimento di armi clandestine… per sfociare poi negli attentati, nelle aggressioni, nei ferimenti, negli omicidi mirati, in una escalation rivoluzionaria sempre più irrazionale. Gli italiani assistevano ad una stagione violenta della “strategia della tensione e degli opposti estremismi.” Da un lato l’ ideologia folle degli stragisti neofascisti, che sognavano la dittatura militare per estirpare il comunismo. Dall’altro lato l’ideologia rivoluzionaria dell’estrema sinistra marxista - leninista, che sognava il trionfo del comunismo in Italia.

Le brigate rosse, in un contesto storico dominato da mobilitazioni di massa studentesche e operaie, da numerosi intellettuali di sinistra, da docenti univeritari “cattivi maestri” che indottrinavano gli studenti alla violenza e da esponenti politici delle ali massimaliste e radicali interne ai pariti della sinistra storica, trovarono ampi consensi anche tra gli operai delle fabbriche e in quella vasta area grigia della società civile, stufa dello strapotere della Democraiza Cristiana.

Molti cittadini dei   quartieri popolari delle periferie urbane, ove erano acuti i disagi sociali e le nuove forme di povertà e di emarginazione, fecero la scelta di classe, simpatizzarono per la lotta armata e divennero fiancheggiatori dei gruppuscoli terroristici.

Università, Fabbriche, Quartieri furono teatro di atti di violenza e di proselitismo rivoluzionario.

Nel 1972, dopo la morte di Feltrinelli, nacquero i nuclei armati misti tra Potere operaio e brigate rosse, che erano sotto la direzione politica di Franco Piperno, che cercava di unificare la lotta armata col “Progetto Metropoli”, coadiuvato da Susanna Ronconi, Carlo Picchiura, Piero Descoli, militanti del servizio d’ordine di Potere operaio e da appartenenti al gruppo di Michele Galati.

Tutti avevano come vertice il brigatista Giorgio Semeria.

Potere operaio era imbevuto di neoleninismo e propugnava la creatività delle masse operaie, irriducibili al capitale e alle lotte operaie, che dovevano uscire dall’alveo sindacale per opporsi alla violenza dello Stato e del Capitale contro le ristrutturazioni dell’apparato produttivo.

Sempre nel 1972 i Servizi d’ordine di Potere operaio e di Lotta Continua si unificarono e gli scontri di piazza si moltiplicarono a Milano, a Roma, a Torino, a Genova, a Padova e in altre città italiane.

E’ l’epoca in cui questi gruppi gareggiano a conquistare scuole, università, mense e case studentesche per bloccare la scuola, distruggere la didattica, unire nel terrore i movimenti di massa e colpire obiettivi mirati: ingegneri, ufficiali di corpi militari, funzionari direttivi statali e della pubblica amministrazione, commissari di polizia, presidi e docenti universitari ed altre categorie sociali, sindacalisti e gente del popolo compresi.

Quegli erano anche gli anni per rifornirsi di depositi d’armi e per dedicarsi all’esercitazione degli assalti agli arsenali militari non solo in Italia, ma anche in Svizzera.

Nel 1973 fu assiduo il rapporto tra Potere operaio e brigate rosse, che predicavano “ Terrore e movimento di massa”, come strettamente inscindibili.

In tale direzione si collocò l’organizzazione del “Partito Armato”, che si estese tra le masse studentesche e tra gli operai delle grandi fabbriche e tra le frange di movimenti e comitati di lotta presenti nei quartieri popolari della periferia milanese e nei comuni della cintura industriale contermini a Milano.

I movimenti rivoluzionari allargarono l’orizzonte anche ad altre due città del triangolo industriale: Genova con gli stabilimenti dell’Ansaldo e dell’Italsider e Torino, ove era localizzata la più grande industria automobilistica d’Italia: “la Fiat Mirafiori”.

Si pianificarono sequestri, pestaggi ai capi reparto e agli attivisti sindacali, si organizzarono micro sabotaggi alle catene di montaggio, si organizzò il primo rapimento del dirigente Fiat, Bruno Labate, il 12 febbraio 1973.

Nel 1974 la lotta armata divenne per molti giovani un’opzione che conquistò molti consensi e consolidò la svolta del processo terroristico delle formazioni combattenti per il comunismo.

Nel Luglio 1974 falchi e colombe delle br. si affrontarono in un serrato dibattito interno.

Il 7 settembre Curcio, Moretti e Franceschini si riunirono a Parma per decidere la data della convocazione della Direzione strategica, che avrebbe dovuto nominare il nuovo direttivo.

La nuova direzione strategica fu nominata il 22 settembre, ma poco giorni prima era avvenuto l’arresto del nucleo storico brigatista di Curcio e Franceschini, tradotti nel carcere di Torino.

Capo delle brigate rosse divenne Mario Moretti, che si era prefisso di fare la rivoluzione per colpire più in alto i vertici dello Stato, trasferendosi a Roma per fondare la colonna brigatista romana,

Durante quest’anno i gruppi della sinistra si spaccarono tra veri rivoluzionari e seguaci di Corrado Simioni, che aveva organizzato una struttura semiclandestina nell’intento di infiltrare i loro movimenti , raccogliendo un nutrito gruppo di militanti, che si identificò nel “Superclan”.

A livello nazionale l’organigramma delle b.r. era rappresentato dalla Direzione Politica, suddivisa in direzione logistica e direzione strategica.

Quella logistica si occupava del rifornimento di armi e della ricerca delle basi nascondiglio.

Quella strategica si occupava delle colonne regionali, che si suddividevano in brigate.

Dopo l’arresto del nucleo storico dei brigatisti, che furono processati e condannati a Torino nel 1976, Mario Moretti e Barbara Balzerani, subentrano alla prima generazione e fondarono la colonna romana delle brigate rosse.

La storia delle brigate rosse a Milano è suddivisa in quattro periodi e percorre dieci anni di terrore, caratterizzato da un gruppo di fuoco altamente militarizzato e, particolarmente, attivo negli attentati da campiere.

Si calcola che soltanto la colonna brigatista, intestata a “W.Alasia” contava, nel 1977, oltre 300 insospettabili tra militanti combattenti e fiancheggiatori operativi sul territorio.

La compartimentazione della colonna milanese era divisa in due fronti: quello di massa e quello logistico.

Il fronte di massa era suddiviso in sette brigate, che prendevano nome dai quartieri e dalle fabbriche del capoluogo lombardo. Questi erano i settori operativi di Milano:

Alfa Romeo – brigata “Walter Pezzoli”, ucciso l’11/12/1980 in via Varesina a Milano.

Sesto San Giovannni – brigata “ Roberto Serafini”, ucciso l’11/12/1980 in via Varesina.

Roberto Serafini e Walter Pezzoli, furono uccisi l’11 dicembre 1980 dai carabinieri dell’Antiterrorismo, che sorvegliavano la bocciofila di via Varesina a Milano, frequentata da Vittorio Alfieri, operaio sindacalista della Cisl dell’Alfa Romeo, noto per la sua militanza politica estremista e che si era dato alla clandestinità.

I carabinieri riconoscono Roberto Serafini, già latitante con un percorso terroristico rivelato dai pentiti Carlo Fioroni e Marco Barbone.

Serafini era uno dei capi militari dell’organizzazione capeggiata da Toni Negri “ Rosso-Brigate Comuniste” con Corrado Alunni.

Serafini era assieme a Walter Pezzoli, fermati in via Varesina; anziché arrendersi, estraggono le armi per sparare ai carabinieri che li avevano riconosciuti, ma i carabinieri furono più lesti a reagire e li uccisero. Si ricorda che Walter Pezzoli, già sospettato di appartenere alla lotta armata, mesi prima era stato assolto a Genova dall’accusa di appartenere alle brigate rosse.

Al momento della sua uccisione nello scontro a fuoco con le forze dell’ordine, tuttavia, era armato e pronto a fare fuoco.

Le altre colonne terroristiche attive a Milano, dopo quella dedicata ad Alasia, furono:

Brigata Ospedaliera intitolata a “Fabrizio Pelli; Ticinese - Giambellino – Lorenteggio; Lambrate; Quarto /Alfa Romeo; W. Alasia e la colonna carceraria fatta dai detenuti terroristi sconfitti e arrestati.

Nel 2016 in una soffita di un padiglione del Policlinico è stato rinvenuto un archivio di documenti appartenenti alle brigate rosse, a testimonianza di quanto erano efficienti e bene infiltrati i militanti brigatisti all’interno dell’Ospedale.

La “brigata territoriale” era costituita da terroristi fiancheggiatori e, a sua volta, si ripartiva in diverse cellule di azione, che coprivano un’intera zona della città. Il fronte logistico reperiva alloggi come basi di appoggio e seguiva le infiltrazioni dei brigatisti all’interno delle fabbriche, nei quartieri, nelle scuole e schedavano migliaia di nemici, che diventavano possibili obiettivi selezionati da colpire, come nemici di classe.

 

 

Il Giorno - 14 giugno 1984


La nascita a Milano delle brigate rosse dal Primo “Collettivo Metropolitano”del 1971 alla sanguinaria colonna intestata a “Walter Alasia, nel gennaio 1977

 

Dal 1969 Milano cominciò a crescere una sorta di guerriglia urbana con manifestazioni studentesche in un clima di scontri politici e scioperi di lavoratori delle fabbriche, che reclamavano più diritti e maggiore dignità nei luoghi di lavoro, mentre politicamente nasceva un blocco moderato conservatore denominato “Maggioranza silenziosa”, che trovò voce e cassa di risonanza nel capogruppo della Dc a Palazzo Marino il suo esponente di riferimento: quel famoso Massimo De Carolis, uno dei primi gambizzati dalle brigate rosse.

Col tempo le manifestazioni studentesche assunsero sempre più forma di guerriglia urbana nel centro di Milano con scontri politici, slogan offensivi e volantinaggi minacciosi, aggressioni, sequestri di persona, atti di violenza politica, rapine, espropri proletari, sabotaggi, attentati, ferimenti e omicidi mirati.

Dal 1972 il clima politico e le proteste divennero sempre più incandescenti e si visse un clima di strisciante guerra civile anche per la scomposta reazione dei gruppi eversivi di estrerma destra neofascista, identificati con i “San Babilini”, che si scontravano sanguinosamente nel centro di Milano con gli studenti antagonisti dell’Università Statale di via Festa del Perdono.

Abbiamo già detto che le brigate rosse apparvero per la prima volta, nel 1971 con i primi volantini nella fabbrica della Sit -Siemens di Piazzale Zavattari, che furono poi distribuiti anche nello stabilimento della stessa azienda a Settimo Milanese.

Qui avvenne uno dei primi sequestri il 3 marzo del 1972 nella persona del dirigente Idalgo Macchiarini della Sit-Siemens, ove lavorava Mario Moretti, il futuro leader della Direzione Strategica delle brigate rosse.

Il secondo sequestro avvenne il 15 gennaio 1973, quando le br. irruppero, in pieno giorno, nella sede dell’Unione Cristiani Imprenditori in via Bigli, relegando un dirigente e un commesso e impadronendosi dell’archivio e dell’elenco degli iscritti.

Nel volantino rilasciato in sede, gli imprenditori vengono definiti “cristiani fascisti in camicia bianca!”

Il terzo sequestro avvenne il 20 giugno 1973 col rapimento da parte delle br dell’ing. Michele Mincuzzi, di 56 anni vice-direttore dell’Alfa Romeo e rilasciato dopo tre ore d’interrogatorio.

Il quarto sequestro fu quello di Ettore Amerio, direttore del personale della Fiat, avvenuta l’8 dicembre 1973 e rilasciato dopo essere stato fotografato col cartello al collo!

Sempre nel 1974 non possiamo dimenticare l’irruzione dei brigatisti nella sede del Comitato di Resistenza Democratica, fondato da Edogardo Sogno nel 1971, ove furono sequestrati numerosi documenti.

Il quinto sequestro avvenne il 14 aprile 1975, nella persona dell’ing. Carlo Saronio ad opera di appartenenti ad Autonomia Operaia e che fu ucciso dopo avere pagato il riscatto di ben 450 milioni.

Il sesto sequestro, 8 anni dopo, avvenne con la cattura di Renzo Sandrucci, dirigente dell’Alfa Romeo e rilasciato dopo 51 giorni di prigionia, il 23 Lglio 1981.

Non possiamo dimenticare il piu spettacolare sequestro politico del maggio del 1976, avvenuto a Genova con la cattura del giudice Mario Sossi, che fu liberato, senza ottenere contropartite a favore di alcuni terroristi carcerati nel capoluogo ligure.

L’operazione trattativa fu bloccata dal Procuratore Capo Francesco Coco di Genova, che negò coraggiosamente il riconoscimento politico dei terroristi e per questo fu poi ucciso, assieme alla sua scorta, dalle br.

 

I brigatisti rossi, fanatici giustizieri, compiono soltanto a Milano 27 ferimenti e 12 omicidi A livello nazionale la mattanza, aisoltanto dei brigatisti rossi, ha raggiugno 89 vittime assassinate e centinaia di feriti,

 

Senza contare i sabotaggi, i sequestri, le rapine, gli espropri proletari, l’acquisto di armi e migliaia di scontri politici, le brigate rosse a Milano hanno compiuto, per odio e fanatismo politico, 27 feriti (esclusi quelli degli scontri di piazza.

Questi i nominativi degli abiettivi mirati colpiti come nemici del popolo: Massimo De Carolis, capogruppo DC; Prati Giulio. brigadiere dei carabinieri, Nicola Toma dirigente della Sit - Siemens”; Restelli Giuseppe, caporeparto della Breda; Indro Montanell, direttore de “Il Giornale Nuovo”; Fausto Silini, caporeparto della Breda; Giuseppe D’Ambrosio, caporeparto della Sit – Siemens; Luciano Maraccani, caporeparto della Fiat OM; Carlo Arienti, consigliere comunale della DC; Grossini Aldo, dirigente A lfa Romeo; Berardini Tito, segretario sezione DC; Gavino Manca, dirigente della Pirelli; Marcello Moresco, vigile urbano; Nicola Bestonso, dirigente Alfa Romeo; Ferla Battista, capo infermiere del Policlinico di Milano; Nigra Domenica, ostetrica; Malaterra Fernando, vice capo infermiere Policlinico di Milano; Manfredi Nino, vice capo infermiere del Policlinico di Milano; Miraglia Mario , docente e dirigente d’azienda; Dellera Mario, capo reparto verniciatura Alfa Romeo; De Buono Emilio, direttivo DC via Mottarone e presidente del Circolo culturale Prealpi; Iosa Antonio, presidente del Circolo culturale Carlo Perini, Robbiani Eros , segretario sezione Dc via Mottarone, Tedeschi Nadir, Deputato e membro del Direttivo nazionale della DC; Alberto Passalacqua giornalista de “La Repubblica”; Caramello Maurizio, ingegnere e dirigente della Breda.

 

I 12 omicidi delle br in Milano e provincia (esclusi gli altri 77 a livello nazionale) sono stati:

 

Maritano Felice, maresciallo dei carabinieri ucciso a Mediglia(Mi); Bazzega Segio, maresciallo di PS, ucciso in via Leopardi a Sesto San Giovanni; Padovani Vittorio, vice-questore, ucciso in via Leopardi a Sesto San Giovanni; Ghedini Lino, brigadiere della Polizia Stradale, ucciso a Settimo Milanese sulla Strada per Novara; Di Cataldo Francesco, maresciallo agente di custodia Carcere S. Vittore, caduto in via Ponte Nuovo; Cestari Antonio, Santoro rocco,Tatulli Michele, agenti di Pubblica Sicurezza del Commissariato Ticinesi, uccisi in via Schievano a Milano; Briano Renato, dirigente della Ercole Marelli, ucciso sulla M1 nel tratto Loreto – Gorla; Mazzanti Manfredo, dirigente industriale Falck, assassinato in via Orseolo angolo via Savona a Milano; Marangoni Luigi, direttore del Policinico di Milano, assassinato in via Don Gnocchi, 9; Renzi Valerio, maresciallo dei carabinieri, ucciso nell’ufficio postale di Lissone (Mi).

 

La nascita delle brigate rosse e della colonna “W. Alasia” a Milano

 

La storia delle brigate rosse si sviluppò a Milano con il gruppo della Sinistra proletaria del “Collettivo Politico Metropolitano” di Renato Curcio, Corrado Simioni e Alberto Franceschini.

Da questa area politica nacque il nucleo storico delle brigate rosse.

La storia del gruppo si dipana in quattro tappe.

La prima e più lunga tappa parte dal 1972 all’inverno del 1978 -79, in sostanza sino alla scoperta del covo in via Monte Nevoso e all’arresto di Nadia Mantovani.

La seconda tappa si snoda dal febbraio 1979 al luglio 1980.

La terza prende avvio dall’estate 1980, ossia dalla direzione strategica di Tor di San Lorenzo al febbraio del 1982 con il progettato assalto al carcere di San Vittore.

La quarta dal febbraio 1982 all’inverno del 1983, ne segna il declino di questi terroristi che si credevano invincibili e imprendibili.                                                                        

Nel 1972 la struttura organizzativa brigatista si dà un esecutivo nazionale di cui fanno parte da 4 a 6 membri, per passare poi alla Direzione strategica, ai Fronti (Il Fronte di massa e il Fronte logistico), alle colonne regionali, alle brigate e infine si arriva alle cellule, composte da “tre unità combattenti”.

Le brigate rosse compiono, a livello nazionale, le prime uccisioni di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola il 1/06/1974 avvengono a Padova.

Segue la morte di Felice Maritano il 15/10/1974 nella frazione Robbiano di Mediglia (Mi) e del brigadiere dei carabinieri, Andrea Lombardini, il 5/12/1974, ad Argelato (Bo). Le br alzano il tiro e uccidono il Magistrato Francesco Coco a Genova l’8/06/1976.

Il 15 dicembre 1976, muore in un conflitto a fuoco il terrorista Walter Alasia a Sesto San Giovanni.

Nello scontro vengono uccisi, dal giovane terrorista, i due marescialli della Digos Sergio Bazzega e il vice-questore Vittorio Padovani, che si erano recati al suo domicilio per arrestarlo.

                                                               ***

La colonna brigatista “Walter Alasia” si rese autonoma dalla Direzione Strategica Nazionale nel 1980, dopo ampie discussioni interne, scaturì una feroce polemica dei milanesi contro Mario Moretti e Barbara Balzerani, fra continui e reciproci insulti.

I milanesi sostenevano che Moretti e la Balzerani, come dirigenti, erano completamente falliti e dovevano ritirarsi.

La colonna Walter Alasia, nell’estate del 1980, esce dalle brigate rosse si struttura autonomamente e la capo colonna diventa Pasqua Aurora Betti.

Nella direzione locale entrano: Roberto Adamoli, Vittorio Alfieri, Maria Rosa Belloli, Pasqua Aurora Betti e Nicolò De Maria.

A fianco della direzione di colonna nascono il coordinamento delle fabbriche e il coordinamento del territorio e da essi dipendono le brigate.

La colonna brigatista milanese, dal 1977 al 1982 contava più di trecento militanti e oltre cinquecento fiancheggiatori.

La colonna milanese progettò l’assalto al carcere di San Vittore, nel febbraio del 1982, per liberare la capo colonna Pasqua Aurora Betti ed altri terroristi carcerati e fallì nel suo obiettivo.

Gli ultimi omicidi delle brigate rosse, a livello nazionale, risalgono al 30 marzo del 1987 con l’uccisione del generale dell’aeronautica Licio Giorgieri a Roma e del prof. Roberto Ruffilli, docente dell’Università Cattolica di Milano e collaboratore dell’on. Ciriaco De Mita, avvenuto il 16 aprile 1988 a Forlì.

 

La fine della colonna brigatista Walter Alasia e la caduta degli imprendibili

 

L’arresto a Milano di Mario Moretti nel marzo del 1981 e l’arresto di Enrico Fenzi a Genova si rivelarono l’anticamera della della decimazione dei brigatisti della colonna Alasia, che avvenne tra il 1981 e il 1982.

Nel febbraio del 1980, dopo gli arresti di via Montenevoso e piazzale Libia a Milano, la direzione strategica delle Br inviò Mario Moretti e Barbara Balzerani per ricostituire la colonna, che si era ribellata all’organizzazione centrale dopo serrate critiche rivolte proprio a loro. Erano infatti accusati di avere provocato il distacco delle brigate rosse dalla classe operaia e, soprattutto, dalle fabbriche milanesi.

La nuova capo colonna, come già detto, divenne Pasqua Aurora Betti con il seguente direttivo strategico: Niccolò De Maria, Roberto Adamoli, Maria Rosa Belloli e Michele Galli.

Grazie, però, ai primi grandi pentiti, Patrizio Peci e Antonio Savasta, inziò la fine di questa colonna terrorista. Altri grandi pentiti come Michele Viscardi, , Marco Barbone… disarticolarono il terrorismo e svelarono l’universo eversivo delle Brigate Rosse e di La Prima Linea, che affondavano le loro radici nella “Autonomia organizzata delle brigate Comuniste”, dirette da Toni Negri e Corrado Alunni (leader militare), Antonio Marocco, Franco Tommei, Gianfranco Pancino, Raffaele Ventura e Roberto Serafini.

Il 12 febbraio 1982 segnò la fine della colonna con l’arresto a Firenze di Michele Galli, che gestiva la base in via Cesare da Sesto a Milano e che rivelò i nomi di altri componenti brigatisti, che diventarono anch’essi collaboratori di giustizia: Franco Grillo, Niccolò De Maria, Nicola Giancola, Ada Negroni, Ettorina Zaccheo, Antonio Marocco e Vittorio Alfieri.

Il 3 dicembre 1982 cadeva nelle mani degli investigatori Bernardino Pacinelli che iniziava collaborare, rivelando anche i rapporti esistenti con “ Nuclei Comunisti” di Sergio Segio, in un confronto politico con il Partito della Guerriglia.

Nel 1984, il nucleo storico delle b.r. era stato completamente sconfitto e tutti i militanti militanti assassini rinchiusi nelle carceri.

Gli 87 brigatisti arrestati furono processati e grazie ai Pubblici Ministeri, Filippo Grisolia e Antonio Lombardi, i terroristi furono condannati. Tutti, riconosciuti assassini e colpevoli di banda armata, ebbero la giusta pena dell’ergastolo da scontare.

Il 23 ottobre 1988, un documento del gruppo storico delle brigate rosse detenuto in carcere, dopo avere ottenuto i benefici della legge Gozzini,

sancisce la fine, delle brigate rosse.

All’esterno del carcere restano operative poche schegge impazzite di irriducibili in libertà, sempre più privi di quella vasta area grigia di consenso, che prima godevano nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri popolari, nel mondo intellettuale, nelle frange massimaliste dei partiti della sinistra storica e negli ambienti radicali della società civile.

I partiti democratici, i sindacati e la maggioranza del popolo italiano avevano ripudiato “senza se e senza ma” il bagno di sangue di vittime innocenti. Il terrorismo fu isolato e sconfitto non solo militarmente, ma anche politicamente. Nella coscienza del proletariato e sottoproletariato urbano la condanna della violenza assassina divenne perentoria a difesa della democrazia minacciato dagli opposti estremismi di destra e di sinistra.

 

Capitolo 15

 

Il processo per il mio ferimento

 

Con notifica del 24 gennaio fui invitato a comparire il 7 marzo 1984, come testimone e parte lesa di fronte alla 1° Sezione della Corte d’Assise di Milano per il procedimento giudiziario a carico di Adamoli Roberto, Moretti Mario, Balzerani Barbara, Betti Pasqua Aurora + 83 altri brigatisti della colonna “W. Alasia”, rinviati a giudizio dal giudice istruttore Antonio Lombardi che completò l’inchiesta, firmando il rinvio a giudizio con 215 capi d’imputazione per i terroristi sconfitti e arrestati.

L’aula della Corte d’Assise sembrava una bolgia infernale per la confusione e il continuo vociare degli 87 brigatisti rinviati a giudizio e rinchiusi in enormi gabbie.

I terroristi, con i pugni alzati e con slogan inneggianti al comunismo, sghignazzavano, scherzavano tra loro e salutavano i loro amici fiancheggiatori e simpatizzanti in libertà e presenti in massa in aula per solidarizzare con loro.

Ai terroristi carcerati non gliene fregava nulla delle vittime e dei reati che avevano commesso, trovarono anche nei processi la foga di ossannare la lotta armata e di rivendicare la giustezza del bagno di sangue, senza dimostrare alcuna pietà per le vittime assassinate.

I familiari dei caduti e noi vittime sopravvissute, intervenuti a questa prima udienza, eravamo sopraffatti, ammutoliti, rannicchiati in un cantuccio, spaesati e quasi intimoriti.

Assistevamo increduli alla sceneggiata, alla tanta baraonda, all’indegno spettacolo di una bolgia dantesca, benché fossero presenti anche le forze dell’ordine, ma impotenti a controllare le esternazioni di apologia della lotta armata.

Rimasi, personalmente, ancora più sconvolto trovandomi di fronte a ben 87 terroristi, considerati “samurai invincibili”, ma sconfitti e arrestati come criminali e racchiusi in enormi gabbie con inferriate. Lo sconcerto fu grande perché mi trovavo, dolorosamente, di fronte a volti noti di giovani terroristi che immaginavo fossero “Robin Hood”, ed erano invece assidui frequentatori dei dibattiti e degli incontri che, nel corso degli anni dal 1970 al 1983, avevo programmato nella sede del mio Circolo culturale Carlo Perini in via Val Trompia, nel quartiere di Quarto Oggiaro.

Non avrei mai immaginato che questi giovani, dalla faccia pulita, che accettavano il duro confronto civile e democratico, avessero potuto fare la scelta armata e praticare l’assassinio politico.

Mi limito a ricordare i brigatisti a me noti, all’epoca fra più intransigentii e feroci e che oggi sono cambiati (pentiti o dissociati). Ecco diversi nomi impressi tuttora nella mia mente: Adamoli Roberto il mio feritore, partecipante ai dibattiti del Perini e che in un memorabile incontro serale esclamò che con “la Dc, non si dialoga me si spara” e al termine del dibattito mi circondò con i suoi amici minacciandomi e insultandomi. Pasqua Aurora Betti (la donna del commando che partecipò, imbaccucata da un basco e da un bavagli, con una pistola al silenziatore nella sparatoria del mio e di altri tre ferimenti). Non riesco a dimenticare Vittorio Alfieri, Lauro Azzolini, Barbara Balzerani, Maria Rosa Belloli con il marito Samuele Zellino (del mio quartiere di Quarto Oggiaro), Franco Bonisoli, Maria Carla Brioschi, Nicolò De Maria, Valerio De Ponti, Calogero Diana, Nicola Giancola, Maria Protti, Vincenzo Scaccia, Mario Moretti (il capo storico), Antonio Savino.

Ecco altri nomi a me familiari che facevano parte del targhettario del Circolo Carlo Perini ai quali spedivo regolarmente gli inviti delle attività culturali del mio circolo Perini: Angelo Ferlicca, Caterina Francioli, Pietro Di Gennaro e il fratello Pompeo, Anna Toraldo, Flavio Amico, Biancamelia Sivieri, Rino Cristofoli, Ada Negroni, Francesco Pagano Cesa, Daniela Rossetti, Roberto Trombin, Marta Vedovelli, Francesco Bellosi, Maria Grazia Chiari, Virginia Bonavita, Adriana Carnelutti, Gaetano Bognanni, Rino Cristofoli, Ivana Cucco, Mauro Ferrari, Flavio Lacerra, Antonio Paiella, Daniela Rossetti, Teresa Sarli, Salvatore Sbriglione, Benedetta Sirchia, Marta Vedovelli, Ettorina Zaccheo.

Tra la mia incredulità, ho conosciuto altri giovani, nel periodo della contestazione studentesca, che abitavano a Quarto Oggiaro - Vialba, fra i quali operai brigatisti della vicina fabbrica Alfa Romeo di Arese e studenti universitari del luogo, che frequentavano gli incontri “al Perini” ed anche Giovanni Casucci e Guido Del Pero del coordinamento delle fabbriche ed altri come: Scaringella Angela.

Riconobbi altri numerosi fiancheggiatori, a piede libero, che erano presenti all’udienza preliminare per salutare e solidarizzare con i loro compagni di merenda, cioè i terroristi chiusi nelle gabbie, sconfitti e sotto processo e, nonostante ciò, esultanti e inneggianti alla rivoluzione, molti dei quali tuttora irriducibili.

Le brigate rosse hanno causato, a livello nazionale la morte di 89 persone, vittime mirate di un truce disegno eversivo.

***

Tornato a casa la prima cosa che feci, meglio tardi che mai, depennai dall’indirizzario del mio Circolo 150 nominativi di giovani terroristi fautori dello scontro armato e ai quali inviavo gli inviti per le manifestazioni programmate nel corso degli anni sociali trascorsi.

Precauzione tardiva, dopo che ero stato atrocemente gambizzato da quattro brigatisti che sparavano a cittadini innocenti e disarmati ed avevano la pretesa di essere considerati eroi rivoluzionari e partigiani di una Nuova Resistenza cervellotica.

Si tenne, poi, il processo e partecipai al dibattimento, per l’irruzione alla sezione D di via Mottorano. Guardai in faccia i terroristi autori del mio ferimento e di altri tre amici. L’udienza si tenne di mercoledì 13 giugno 1984, allorché fui convocato a deporre come teste e parte lesa sulle circostanze e sulla narrazione dei fatti del mio ferimento.

Roberto Adamoli era stato il mio feritore nell’attentato del 1/4/1980 e, tra la mia grande sorpresa, il brigatista con aria da intelletuale da saputello rivendicò, nell’aula del Tribunale, l’attentato con deliranti motivazioni politiche, che scatenarono la mia indignata reazione, tanto più che il soggetto era frequentatore dei dibattiti al mio Circolo e ricordavo il suo grido”con la DC non si dialoga, ma si spara” e il gruppo dei suoi amici facinorosi che m’ingiuriarono e minacciarono.

Ricordo che il presidente della Corte di Assise lesse anche la perizia del medico – legale, eseguita dal prof. Mangili dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università agli Studi di Milano a seguito di una mia visita di controllo. Tale perizia concludeva che:

“Iosa Antonio subì una malattia ed una incapacità di complessivi undici mesi in conseguenza di lesioni, (in particolare quelle vasali arteriose) di notevole gravità e tali da potere provocare, ove non tempestivamente trattate in sede chirurgica, anche la morte della vittima: lesioni, pertanto in linea teorica idonee a provocare tale esiti e che hanno un residuato, comune, un indebolimento permanente dello organo della deambulazione.

Tale perizia induce a ritenere corretta la qualificazione del fatto descritto come attentato alla vita e come attentato alla incolumità aggravato ai sensi dell’art. 280 commi 1° e 2°”.

Nel corso del dibattimento Roberto Adamoli e Pasqua Aurora Betti a titolo di concorso materiale, Moretti e Balzerani a titolo di concorso morale, furono ritenuti responsabili dei reati loro ascritti.

Ed infatti, al dibattimento, il mio feritore mi interruppe e non perse l’occasione di mettersi in mostra e dare la dimostrazione che quel “Silvio /soprannome di battaglia con il quale si faceva chiamera)” era proprio lui.

Le sue parole, così puntuali, precise sull’accaduto, sulle motivazioni di esse, sul perché della scelta delle persone e del tipo di azione, con quel “noi” insistito e posto a soggetto di ogni proposizione, furono una rivendicazione limpida di dichiarazione di paternità materiale di questo episodio delittuoso.

Fu così che un figlio della buona borghesia genovese, Roberto Adamoli, anello di congiunzione tra la colonna ligure capeggiata da Riccardo Dura, ucciso nel covo di via Fracchia a Genova (assieme ad: Annamaria Ludmann, Lorenzo Betassa e Pietro Panciarelli) e la colonna lombarda “Walter Alasia”, capeggiata da Moretti prima e dalla Betti poi , rivendicò l’attentato contro la mia persona, colpevole di essere un verme democristiano e un immigrato a Milano, proveniente da quel mondo contadino della terra del grande sindacalista Giuseppe Di Vittorio, che tanto fece per il riscatto dei rurali di Puglia e del Meridione d’Italia.

Il terrorista si dichiarò, altresì, orgoglioso di avere sparato ad un figlio di un contadino, immigrato dal Sud d’Italia a Milano in cerca di pane, lavoro e casa e che abitava in un quartiere popolare della città. In nome della rivoluzione proletaria e contadina, i terroristi uccisero emblematicamente a Genova il sindacalista operaio Guido Rossa, uccisero a Milano in via Schievano tre poliziotti meridionali, figli di contadini e spararono a me e spararono a gente comune che svolgeva il proprio dovere di cittadino e di padre di famiglia,

Il Tribunale ritenne Adamoli e Betti responsabili di altri tre omicidi e del concorso morale per la morte di altre cinque vittime uccise a Milano, obiettivi mirati della sanguinaria brigata “Alasia”.  

La condanna per loro all’ergastolo divenne definitiva con la sentenza n. 3076 della Corte Suprema di Cassazione della Sezione I Penale, presieduta da Corrado Carnevale del 4/11/1986.

L’esigenza di giustizia è stata per me vivissima per spezzare una catena di violenza e di morte.

Quando la violenza politica: sequestra, ferisce , uccide non ha diritto di giustificare i propri crimini in nome della lotta di classe e di ideali sbagliati da legittimare. La lotta armata fu immonda e dietro ogni atto immondo ci sono motivazioni immonde fatte di odio, di pregiudizio ideologico, di giustificazione della dell’avversario e della consapevolezza di una lotta armata dichiarata unilaterlmente, intrisa di una sporporzionata ingiustizia, sbagliata nei metodi e nelle finalità irrazionali e irriconoscibili

da parte delle masse operaie, che hanno condannato l’inutilità del sangue versato.

La rivoluzione armata e la pratica omicida hanno portato perciò alla sconfitta del movimento operaio all’interno delle fabbriche, nella politica e nella società civile. Il revisionismo storico oggi punta a cambiare la storia degli anni di piombo con l’infamia di giustificare e legittimare la lotta armata e assolvere gli autori di assassini politici, in nome di un perdonismo religioso e di una riconcliazione politica, che già sono avvenuti con la scarcerazione di tutti i terroristi.

Ricordo, però, che la cultura della violenza durante gli anni di piombo dominava sovrana tra gli altri gruppi di fuoco minoritari, che fomentavano le azioni di guerriglia urbana e penso ai marxisti – leninisti, alle guardie rosse, all’avanguardia operaia, ai Comitati Comunisti Rivoluzionari (Cocori), ai

Nuclei Armati Proletari (Nap) che presero avviao nel 1969 e si diffusero nelle caceri.

Maggiori furono le responsabilità storiche di AutonomiaOperaia che nacque nel 1976 dopo lo scioglimento di Lotta Continua a Rimini.

Non riesco a dimenticare la brigata ospedaliera fu dedicata a Fabrizio Pelli morto di leucemia al Policlinico di Milano e formata da quattro infermieri capitanati da Ettorina Zaccheo condannata come responsabile morale del’omicidio di Luigi Maragoni e del ferimento di due infermieri Battista Ferla e Ferdinando Malaterra.

Solo nel 2016, in un sottotetto di un padiglione del Policlinico di Milano, sono stati rinvenuti documenti nascosti sull’organizzazione armata della colonna brigatista ospedaliera, a dimostrazione di come era ben strutturata e infiltrata da militanti e fiancheggiatori, che costituivano un “vero cavallo di Troia” nel sistema sanitario della Lombardia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il terrorista Mario Moretti, capo colonna della Walter Alasia, che sequestrò Moro e l’uccise barbaramente - a destra la terrorista Barbara Balzerani, durante il processo alle brigate rosse.

 

 

 

 

 

La Prima Linea

 

Quanto ad altri terroristi del gruppo di fuoco, come “La Prima Linea” ne conoscevo moltissimi, perché provenivano dalla militanza di Lotta continua. Molti giovani di questa di formazione contestativa avevano anche radici di cultura cattolica ed erano tra i frequentatori assidui degli incontri promossi dal Circolo culturale Carlo Perini.

Negli anni ’70 il Circolo culturale Carlo Perini divenne l’areopago di noti esponenti del cattolicesimo democratico e l’avanguardia del progressismo cattolico impegnato nell’evangelizzazione e nella promozione umana delle classi sociali più povere.

Era il periodo in cui fiorivano le comunità ecclesiali di base, i preti operai, le opzioni di molti cattolici per la scelta di classe.

I “cattolici del dissenso o della diaspora, interna alla Chiesa del post - Concilio Ecumenico Vaticano II”, contestavano l’esercizio continuato dello strapotere Dc.

La teologia della “Chiesa dei poveri e della liberazione” fu largamente presente nell’assemblea di padri conciliari, che aprirono la Chiesa al “Mondo moderno” e che trovò consensi fra le masse popolari ed ebbe voce al Perini.

Si sa che il gruppo di fuoco La Prima Linea, nacque dalla scissione di “Lotta continua” nel gennaio 1975 a Roma, dove si scontrarono due posizioni.

Non più organizzazione della violenza o dello scontro politico, ma scelta prevalente rivoluzionaria, con il ricorso alla lotta armata, che si collegò ad altri gruppi provenienti da “Potere operaio e da altre aree dei comunisti combattenti”.

La prima azione di guerriglia firmata da “La Prima Linea” risale al 30 novembre del 1976 con l’irruzione e il processa nella sede della scuola di formazione dei dirigenti della Fiat a Torino.

Il congresso fondativo di “La Prima Linea” si tenne nell’aprile 1977, a San Michele Torri, un paese della provincia di Firenze, ove parteciparono esponenti, già attivi sul territorio, provenienti da Milano, Bergamo, Torino, Firenze, Napoli e si diedero uno statuto e una prima struttura di direzione strategica.

La datazione della sua nascita, come organizzazione della lotta armata vera e propria, parte dal 1976.

La Prima Linea fu molta attiva nell’area metropolitana milanese, particolarmente a Sesto San Giovanni, storicamente considerata la “Stalingrado d’Italia” per la presenza di grandi fabbriche metallurgiche.

La Prima Linea fece numerosi attentati e irruzioni nelle sezioni della Dc, della Cisnal, dei circoli di Comunione e Liberazione.

Assalì caserme dei carabinieri, comandi di vigili urbani, sedi carcerarie, Consorzi e sedi Unione commercianti.

Fece spedizioni punitive contro sedi di piccole e grandi fabbriche, accusate di sfruttare gli operai e di praticare il lavoro nero.

Fu protagonista di espropri proletari e autoriduzione della spesa nei supermercati della Esselunga e dell’Upim.

Moltiplicò irruzioni nei centri studi legati alla DC e all’Assolombarda.

Organizzò attentati e incendi a concessionari e depositi di auto Fiat.

Praticò rapine in armerie e banche, disarmi a guardie giurate e carcerarie, saccheggi.

Il bilancio totale degli omicidi di “La Prima Linea”, a livello nazionale, è di 23 vittime, delle quali sette nell’area milanese (Enrico Pedenovi, Emilio Alessandrini, Guido Galli, Paolo Paoletti, William Vaccher, Francesco Rucci, Eleno Viscardi).

923 militanti di PL furono acciuffati dalla polizia, incarcerati e processati dalla magistratura. Altre migliaia di fiancheggiatori rimasero impuniti,

Nel mese di dicembre del 1982 il pentito Pancinelli delle brigate rosse, rivela i contatti con Sergio Segio, capo di “La Prima Linea”, che fu arrestato il 15 gennaio 1983.

Nel giugno del 1983, si svolse a Torino una conferenza dei militanti di Prima Linea, quasi tutti detenuti e la lotta armata fu giudicata improponibile.

Con una presa d’atto di sconfitta politica e militare, si decise lo scioglimento ufficiale del gruppo terroristico “La Prima Linea.”

Nel febbraio del 1984, con la caduta delle due basi milanesi in via Vallazze e in via Astesani, vengono catturati gli ultimi capi latitanti dei Nuclei armati Comunisti, sorti sulle ceneri di Prima Linea, Bruno Ghirardi e Gloria Argano.

Fra i militanti di Prima Linea ricordo Federica Meroni, l’infermiera del Policlinico di Milano, che abitava in via Amoretti a Quarto Oggiaro e frequentava, insieme ad altri militanti comunisti eversivi, la sede del Perini.

Non va dimenticato la storia dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar), fondati a Roma da Valerio Fioravanti e che furono attivi anche a Milano. Laviolenza di matrice neofascista dei Nar a Milano ha compiuto ben 8 omicidi fra i quali 4 esponenti delle forse dell’ordine e quattri studenti di sinistra.

La storia del terrorismo a Milano è possibile scriverlo dall’osservatorio privilegiato dell’ex Circolo culturale Perini, oggi omonima Fondazione.

Ho vissuto da testimone la tragedia degli anni di piombo, in una realtà di quartiere ove, oltre alle lotte democratiche del movimento operaio, allignò la guerriglia urbana che sfociò nel terrorismo, nella guerriglia urbana, per la massiccia presenza di gruppi rivoluzionari giovanili e di aderenti all’autonomia operaia nelle fabbriche, all’Unione Inquilini e ad altri collettivi giovanili estremizzati.

Troppi giovani, per ideali sbagliati, si sono immolati, nel disegno eversivo di abbattere la democrazia, senza rendersi conto che, esercitando la violenza e il terrore, hanno criminalizzato la classe operaia.

Il terrorismo pazzo e sanguinario della rivoluzione comunista, non favorì i lavoratori e il popolo dei quartieri di Milano.

Moretti e Segio oggi sono dissociati dalla lotta armata e da 25 anni godono dei benefici previsti dalla legge sulla dissociazione. Il primo è dirigente di una Cooperativa di CL, che gestisce l’informatizzazione del Carcere di San Vittore e si gode furbescamente il silenzio omertoso sulla verità del sequestro e dell’uccisione dell’on. Aldo Moro tenuto prigioniero per 55 giorni dal 16 marzoa al 9 maggio del 1978 nei covi terroristici gestiti da Moretti. Il secondo è un consulente per il settore carcerario della Cgil e continua a scrivere libri da Miccia corta alla Prima Linea per rivendicare il diritto della sua buona fede rivoluzionaria intessuta di nobili ideali per migliorare le condizioni degli uomili e degli oppressi in Italia.

Renato Curcio, nella sua irriducibilità, è diventato sociologo missionario e scrittore di libri che analizza le distorsione e le diseguaglianze del sistema politico dominante in Italia e nell’economia globalizzata delle multinazionali.

Toni Negri sale nelle cattedri universitaria per predicare che ci sono più motivazioni d’ingiustizia nella società odierna, rispetto a quella deggli anni’70 e che quindi oggi si legittima il ricorso alla violenza per cambiare le istituzioni.

Di fronte a tali scenari, si constata amaramente come la sconfitta del terrorismo non ha modificato il destino politico del nostro Paese, anzi ha accrescituo le disegueglianze e ha tolto la speranza del lavoro alle giovani generazioni.

Eppure rifletto che dal 1991, sino crollo dei partiti di tangentopoli, nacque la II Repubblica, che ha caratterizzato la storia politica di questi 27 anni.

Dal 1969 al 2004 oltre 40.000 sono stati i terroristi denunciati, 20.037 gli inquisiti per fatti di lotta armata e associazione sovversiva. 299 sono stati i morti trucidati dai gruppi di fuoco della sinistra rivoluzionaria.

89 vittime sono state uccise dalle vecchie brigate rosse delle quali 5 sono caduti sotto i colpi delle nuove b.r. nei primi anni del duemila.

23 sono state le vittime uccise da Prima Linea in Italia, dei quali 7 a Milano.

Un altro centinaia di caduti sotto il fuoco di altri gruppi eversivi sia di sinistra.

Si ricorda che i NAR (Nuclei armati rivoluzionari), gruppi di fuoco neofascisti channo commesso 39 omicidi a livello nazionale e dei quali 8 sono stati compiuti a Milano.

I feriti, compresi quelli delle stragi, sono oltre 1.200.

Gli atti di violenza politica, sempre dal 1969 al 2004, sono oltre 15.000 e i morti ammontano complessivamente a 689 compresi quelli caduti per atti di terrorismo internazionale, nelle guerre in Iraq e Afghanistan e negli scontri politici di piazza fra studenti di opposte fazioni di destra e di sinistra e negli scontri di piazza con le forze dell’ordine.

Non dimentichiamo le vittime italiane cadute nelle stragi causatte dal fondamentalismo islamico nelle località turistiche e in luoghi ove si erano recatia a lavorare all’estero oppure svolgevano la loro missione umanitaria o missionaria religiosa.

 

Il Giornale di Brescia, 9 ottobre 1995


Capitolo 16

I diritti delle vittime dimenticati e i tardivi riconoscimenti dei benefici di legge

 

Da 37 anni continua il mio calvario fatto di centinaia di visite specialistiche ospedaliere o private, di 34 interventi chirurgici e di migliaia di medicazioni. Ecco l’elenco degli Ospedali da me utilizzati:

1) Fatebenefratelli di Milano, con 2 ricoveri.

2) Spedali Civili di Brescia, con 4 ricoveri.

3) Ospedale Felttrinelli di Gargnano sul Garda, con 1 ricovero e cure di riabilitazione.

4) Ospedale San Carlo di Milano, con 1 ricovero.

5) Ospedale San Paolo di Milano, con 1 ricovero e lunghe cure fisiatriche

6) Ospedale Sacra Corona di Pietra Ligure, con 10 medicazioni.

7) Ospedale Maurizio Bufalini di Cesena, con 1 ricovero e 10 medicazioni.

8) Ospedale Marconi di Cesenatico, con 2 ricoveri e 89 medicazioni nel corso degli anni.

Ospedale di Cesenatico per interventi e medicazioni durante il periodo delle mie ferie che vi si protraggono da 35 anni.

 

9) Istituto di medicina Legale Università degli Studi di Milano, 1 visita specialistica.

10) Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, due visite specialistiche.

11) Istituto Ortopedico Gaetano Pini, 3 visite specialistiche.

12) Policlinico di Milano, con 1 ricovero.

13) Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, con 5 ricoveri e 200 medicazioni nel corso degli anni.

14) Ospedale Luigi Sacco di Milano, 3 ricoveri, una ventina di visite specialistiche e 75 medicazioni.

15) Ospedale di Niguarda di Milano, 1 ricovero e una diecina di visite specialistiche.

16) Ospedale Valduce di Como, 1 ricovero.

17) Policlinico Ospedale Militare di Baggio, due visite specialistiche.

18) Ospedale reparto Ortopedico di Legnano, 1 visita specialistica.

19) Istituto Clinico Sant’Ambrogio di Milano, 5 ricoveri.

20) Policlinico Universitario Santa Maria alle Scotte - clinica neurologica Università degli Studi di Siena, con una visita specialistica.

21) Istituto di Medicina Legale Università degli Studi di Milano, 1 visita specialistica.

22) Istituto Riabilitativo Don Gnocchi, 1 ricovero e lunghe cure di riabilitazione.

23) Ufficio Medicina Legale Invalidi Civili delle ASL, 5 visite specialistiche.

24) Ospedale San Raffaele di Milano

25) Istituto Clinico di Milano (ex S. Rita) visite per piede neurologico in plegia

26) Istituto Don Gnocchi Fondazione Palazzolo

Ulteriori medicazioni e visite le ho effettuate nei poliambulatori ospedalieri di Cesenatico e in quelli degli ospedali Sacco e Galeazzi di Milano, senza contare quelli privati a pagamento sia per visite specialistiche, che cure varie. Ricordo che al Galeazzi, per curare le piaghe al piede sinistro, feci molti cicli all’interno della stessa camera iperbarica che fu oggetto di un disastroso incidente il 31 ottobre 1997, dove 10 pazienti che volevano guarire e 1 infermiere morirono bruciati, o meglio abbrustoliti. Sono scampato al rogo e vivo.

 

 

 

 

Il barone dimezzato e le visite specialistiche per l’aggravamento dell’invalidità

Per ironia della sorte, nel 1987, scoprii che la mia casata vantava origine nobiliare, in quanto la famiglia Iosa, dalla ricerca araldica effettuata da un mio omonimo di Carlantino (Fg), figurava di antiche e nobili memorie fra Sicilia e Regno di Napoli. Nel secolo XV, risultò che l’antenato Iosa, col titolo di “Barone”, godette di nobiltà a Messina e nel castello di Camastra. Tale casata nel corso dei secoli si diramò nelle Puglie, nel Molise e in altre Regioni d’Italia (soprattutto in Emilia - Romagna e Veneto).

Dopo tale pomposa ricerca araldica, mi autoproclamai “Barone” e, insignitomi del titolo nobiliare, da allora, sfottendo me stesso, mi soprannominai il “Barone dimezzato”, perché il mio corpo è stato squartato e ricucito, pezzo per pezzo, da cima a fondo in più riprese, come il “Visconte dimezzato” di Italo Calvino. Accertai successivamente, fra l’unanime e bonaria derisione di parenti e amici che, in Italia, tutte le casate possono vantare un albero genealogico di nobili origini e tutti possono insignirsi di altisonanti e pomposi titoli onorifici. Non mi meravigliai affatto nel constatare che, durante le ferie estive sulle spiagge italiane e sui viali balneari, strani personaggi si aggiravano dotati di computer ed effettuavano una immediata ricerca araldica sul cognome del richiedente al prezzo delle vecchie 20.000 lire, per rilasciare, seduta stante, a tutti i passanti il diploma o l’attestato blasonato.

Anche tu che mi stai leggendo se sei di stirpe plebea, affrettati ad ottenere l’attestato araldico, pagando €. 10,00, potrai così scoprire di essere, barone, o marchese, o conte, o duca, o arciduca e persino principe di stirpe reale. In questo modo diventerai aristocratico del mio magnanimo rango e potremmo essere colleghi.Eppure, un barone sia pure dimezzato come me, pur essendo oggi un vecchio pezzo di carne maciullata, ha compiuto 84 anni ed è miracolosamente in vita.

L’abolizione dei titoli nobiliari è sempre valida, ma chi vuol fare “il pirla” continua ad insignirsene e si rende ridicolo.

***

Visita all’Ospedale Militare di Baggio in Milano e la legge del 20 ottobre 1990, n . 302

Per ottenere alcuni benefici di legge in termini economici di speciale elargizione e di vitalizio, passarono circa 12 anni dall’attentato. Per tutti questi anni mi pagavo i ticket sanitari non solo sulle visite specialistiche e le cure mediche riabilitative, ma anche sui farmaci non mutuabili.

Già il 6 novembre 1989, in base alla legge n. 466, presentai istanza alla Prefettura di Milano per essere ammesso a benefici, che non mi vennero riconosciuti.

Solo il 20 ottobre 1990, il Parlamento italiano emanò una legge emendativa, n. 302 che prevedevano norme a favore delle vittime di terrorismo e della criminalità, con criteri più estensivi e in proporzione alla percentuale del danno subito da parte delle vittime sopravvissute.

La certificazione attestante la condizione di invalido civile a causa di atti di terrorismo, ai sensi della suddetta legge n. 302, mi fu rilasciato Policlinico Militare di Baggio in Milano.

Mi ero sottoposto già a visita in data 19/09/1990 e, come da verbale sanitario n. 4038, la Commissione Medico - Legale, presso il Policlinico Militare di Milano, mi riconobbe una riduzione della capacità lavorativa dell’82%, a seguito dell’attentato terroristico del 1° aprile 1980.

Nel gennaio 1991, constatato l’aggravamento delle mie condizioni di salute, che mi aveva indotto ad abbandonare il lavoro, avanzai ulteriore richiesta integrativa alla Prefettura di Milano, per ottenere dal Ministero dell’Interno il godimento dei benefici previsti dalla suddetta legge.

Alcuni mesi dopo ottenni la certificazione prefettizia ufficiale di vittima del terrorismo, la speciale elargizione e l’assegno vitalizio a favore delle vittime di azioni terroristiche ai sensi dell’art. 1 della legge del 20/Ottobre/1990, n. 302 e sue successive modificazioni.

L’articolo 9 della citata legge estendeva le disposizioni vigenti a favore degli invalidi civili di guerra e delle famiglie dei caduti civili di guerra i benefici, anche a favore anche degli invalidi civili a causa di atti di terrorismo consumati in Italia e delle loro famiglie in quanto compatibili con la legge n. 302.

Ulteriori miglioramenti li ho avuti attraverso la legge del 3 agosto del 2004, n. 206.

Visto l’art. 4, c. 1 della citata legge, ottenni il riconoscimento ad una maggiore elargizione, ad un più elevato vitalizio integrativo e l’equiparazione a Grande Invalido di Guerra. La legge recita infatti: “ coloro che hanno subito un’invalidità permanente pari o superiore all’80% della capacità lavorativa, causata da atti di terrorismo e dalle stragi di tale matrice, sono equiparati, ad ogni effetto di legge, ai grandi invalidi di



guerra di cui all’art. 14 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica dicembre 1978, n. 915”.

Ulteriori precisazioni sono contenute nella legge del 23 novembre 1998 e nel D.P.R. del 28 luglio 1999, n. 510. L’ultima e più completa legge del 2 agosto 2004, n. 206 reca “nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”, che hanno consentito di ottenere maggiori benefici anche di natura pensionistica. Si è trattato di un tardivo e doveroso riconoscimento da parte dello Stato per aiutare concretamente, anche sul piano economico, i familiari dei caduti e i feriti per atti di terrorismo e di strage di tale matrice di cittadini italiani.

Con tali provvidenze oggi la mia situazione economica è notevolmente migliorata e in parte ha ripagato la grande amarezza per il grave ritardo con cui lo Stato ha riconosciuto i diritti delle vittime ad una adeguata assistenza sanitaria, economica, pensionistica, anche se la criticità applicativa della norma non ha ancora completamente superato , per pastoie burocratiche, l’articolo di legge sull’assistenza   psicologica ed altre provvidenze previste. E’ stata vanificata l’approvazione di 6 emendamenti applicativi previsti nell’ultima Finanziaria 2016. Il contenzioso rimane aperto fra Governo e Associazioni che assistono i familiari delle vittime del terrorismo e i superstiti feriti per la cattiva applicazione della legge stessa. Nulla di quanto promesso ai familiari delle vittime è stato fatto da parte dei Ministeri competenti.

 

Disturbo Post - Traumatico da Stress Cronico (PTSD) - Visita alla Facoltà di Medicina e Chirurgia – Dipartimento di Neuroscienze del Policlinico dell’Università di Siena (dr.ssa Letizia Bossini)

 

In data 13/09/2005 mi sono sottoposto a visita psichiatrica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia del Dipartimento di Neuroscienze Ospedale “Le Scotte” dell’Università degli Studi di Siena, per una valutazione clinica dello stato di salute psichica attuale e di un eventuale aggravamento degli esiti invalidanti derivati dal grave evento traumatico subito a seguito dell’attentato terroristico del 1/04/1980.

Dopo la descrizione di un’anamnesi psichiatrica e del quadro clinico al momento della visita, il referto dichiara: “il sig. Iosa, vigile ed orientato nel tempo e nello spazio, è accessibile al colloquio clinico. L’aspetto fisico e l’abbigliamento sono curati e il comportamento generale è adeguato. L’eloquio è fluido e non sono presenti segni di alcun tipo di alterazione della coscienza.

I primi segni di una sintomatologia psichiatrica si rintracciano a seguito dell’attentato terroristico.
Il sig. Iosa riferisce di “ricordare il tutto come un film”.

Quei momenti, durati 15 minuti, sono sembrati al paziente infinitamente lunghi. Iosa rivive tuttora l’evento sotto forma di immagini nelle quali si rivede il susseguirsi delle scene dal momento in cui riconosce le pistole (flashackcs).

Questi episodi sono vissuti con una intensa partecipazione emotiva, come catapultato fuori dal tempo e dallo spazio attuale, per rivivere inesorabilmente quella terribile serata. Tutti i particolari, visivi e auditivi, sono presenti, ricorda la scena, la voce femminile e minacciosa, le specifiche frasi dei terroristi, il rosso sangue.

L’attentato subito ha comportato gravi conseguenze sia psichiche che fisiche con le lesioni arteriose e del nervo sciatico e con le fratture multiple. Cominciò un lunga serie di interventi chirurgici, durati oltre 25 anni, per ripristinare la funzionalità degli arti inferiori. I ripetuti interventi chirurgici cui è stato sottoposto associata alla possibilità paventata dai medici della perdita dell’arto sinistro si sono accompagnati ad una grave demoralizzazione secondaria.

Durante il primo ricovero iniziò ad esperire i primi flashback sull’accaduto, rievocando tutti i particolari dell’evento, con continue rimuginazioni sul perché avessero voluto colpire proprio lui, che era stato uno dei pochi fautori dell’integrazione proletaria nella realtà cittadina di Milano, attraverso i numerosi incontri culturali e sociali atti a sensibilizzare la cittadinanza.

Comparvero anche turbe del sonno in termini di difficoltà d’addormentamento e frequenti risvegli dovuti ad incubi che avevano come tema centrale l’attentato. In conseguenza di questi incubi si svegliava ( e risveglia tuttora) in preda a forte ansia e agitazione, che rendono impossibile il recupero del sonno, spesso interrotto anche da crampi alle gambe che si associano al ricordo angosciante del trauma subito e si accompagnano ad intensa rabbia.

Dopo l’evento il sig. Iosa ha avuto un netto cambiamento dei rapporti con la famiglia e con gli amici, vivendo in un continuo stato d’allerta e di tensione.

Di fronte a stimoli come “fuochi d’artificio, spari o rumori improvvisi” sobbalza e si agita, è diventato più irascibile tanto che minime sollecitazioni determinano significative manifestazioni neurovegetative e scoppi di collera. Lamenta perdita di memoria e concentrazione che gli ha reso negli anni difficile il portare a termine diversi compiti lavorativi.

Già dal mese seguente all’attacco, sono comparsi sintomi di distacco e di vuoto che si sono mantenuti costanti negli anni. Il paziente riferisce sentimenti di distacco e di estraneità nei confronti degli altri con sensazioni di vuoto che hanno determinato una progressiva perdita d’interessi e una drastica riduzione dei rapporti sociali, appare emotivamente distante, indifferente e non responsivo (sintomi di “numbing”). Sul piano pratico ciò si traduce in un allentamento dei rapporti sociali del Circolo culturale da egli stesso fondato e la perdita di sentimenti quali amore ed affetto nei confronti dei figli e della moglie; il progressivo ritiro sociale è stato causato dalle difficoltà di concentrazione e di memoria riferite dal paziente che hanno enormemente condizionalo le sue capacità lavorative.

In conclusione, si può affermare che, da un punto di vista psicopatologico, i disturbi del sig. Iosa, sono ascrivibili a Disturbo Post -Traumatico di Stress Cronico insorto a seguito dell’attentato subito (da 26 anni fa).

E’ importante sottolineare che l’evento in oggetto è stato causa senza la quale il PTSD non si sarebbe presentato. L’ evento è stata la causa del grave corteo sintomatologico che permea tutti gli aspetti della vita del Sig. Iosa.

Le gravi conseguenze fisiche e il grave quadro psicopatologico, entrambe causati dall’attentato, si associano nel determinare una grave compromissione funzionale del sig. Iosa in tutti gli aspetti della vita (sociale, lavorativo e familiare).

Com’è dettagliatamente descritto nell’indagine neuropsicologica si evidenzia una compromissione della memoria a breve termine e della capacità di processazione del test sensibile a problematiche percettivo -mnesiche e di organizzazione dell’informazione visuo - spaziale.

Il quadro clinico descritto è rimasto invariato nel tempo, e continua ad interferire con il funzionamento sociale e familiare del paziente.

Non avendo mai posto l’attenzione sul quadro psicopatologico e quindi non avendo mai assunto terapia

psicofarmacologica, si consiglia di effettuare terapia con paroxetina e di effettuare periodici controlli (7).

 

(7)Poiché la cura consigliata mi causava disturbi collaterali indesiderati, ho sospeso tale cura e da allora non ho più effettuato neanche le richieste visite di controllo.

 

Azienda Ospedaliera Senese - Policlinico di Santa Maria Le Scotte - Dipartimento di scienze neurologiche.

Scritto da ANTONIO IOSA   
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