Principessa Mafalda
Lunedì 09 Agosto 2010 10:41

mafalda_savoiaIl Principessa Mafalda (dal nome della Principessa di Casa Savoia) è stato un piroscafo del Lloyd Italiano varato nel 1908 e naufragato il 25 ottobre del 1927 davanti alla costa del Brasile  provocando la morte di 314 persone secondo i dati forniti dall autorità italiane, mentre i giornali sudamericani riportarono un numero di morti doppio: 657

Costruita nei cantieri di Riva Trigoso dal Lloyd Italiano  la nave fu celebre per i suoi allestimenti di gran lusso e per avere per la prima volta nella storia della navigazione la sala delle feste estesa in verticale su due ponti. Di quest’ultima caratteristica il Lloyd Italiano andava particolarmente fiero poiché aveva suscitato l’ammirazione di tutta l’Europa aumentando il prestigio della flotta italiana. Fu il primo piroscafo passeggeri italiano all'altezza della concorrenza nordeuropea, nonché la più grande nave sino ad allora costruita per una compagnia italiana.

Il Principessa Mafalda era un vapore di medio tonnellaggio che effettuava la traversata dell’ Atlantico da Genova a Buenos Aires con scalo a Rio de Janeiro e Santos; per diversi anni rimase la miglior nave su quella rotta. Era provvisto di due eliche e due motori da 10.500 HP ciascuno e poteva raggiungere una velocità massima di circa 17,5 nodi. La nave era lunga 146 metri e larga 17. Aveva una gemella, la Principessa Jolanda, che affondò durante il varo nel 1907. Il 22 agosto 1914 compì un viaggio da Genova a New York (l'unico su quella rotta) e l'anno successivo fu requisita dalla Regia Marina, venendo adibita ad alloggio ufficiali a Taranto durante la prima guerra mondiale.

principessa_mafalda
Nel 1918, con l'assorbimento del Lloyd Italiano nella Navigazione Generale Italiana, il Principessa Mafalda passò a tale compagnia e riprese il servizio sulla rotta dell'anteguerra. Rimase ammiraglia della Navigazione Generale Italiana sino al 1922, data del completamento del transatlantico Giulio Cesare.
Il naufragio [modifica]

La nave partì da Genova l’ 11 ottobre del 1927 al comando del capitano Simone Gulì (un esperto marinaio siciliano sessantaduenne), con a bordo 1259 persone e, al momento del naufragio, si trovava a circa 80 miglia al largo della costa del Brasile, tra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro. Erano le ore 17,15 quando in tutto il bastimento fu percepita una forte scossa. I passeggeri, preoccupati, uscirono sul ponte per cercare di capire l’accaduto ma la nave adesso procedeva in modo apparentemente regolare seppur rallentando la velocità. Il primo pensiero degli uomini dell’equipaggio fu che la scossa potesse essere causata dalla perdita di un’ elica, fatto certamente grave ma non necessariamente pericoloso. Ma il direttore di macchina Scarabicchi salì in plancia ed informò il capitano che si era invece sfilato l’asse dell’elica di sinistra causando uno squarcio nello scafo dal quale l’acqua entrava copiosamente allagando la sala macchine e certo avrebbe presto invaso anche i ponti poiché le porte stagne non funzionavano bene. Gulì fece suonare la sirena d’allarme mentre il primo ufficiale Maresco dava ordine ai marconisti Reschia e Boldracchi di lanciare l’ S.O.S..

Il segnale fu raccolto da varie navi tra le quali i piroscafi da carico Athena (olandese) e l’Empire Star (inglese), che si trovavano nelle vicinanze e che accorsero immediatamente. Tuttavia questi si fermarono ad una certa distanza dal piroscafo italiano poiché da esso si innalzava una vistosa colonna di fumo bianco che faceva temere la possibilità di esplosione delle caldaie. In realtà questo pericolo non sussisteva in quanto gli operatori della sala macchine avevano aperto le valvole del vapore prima che l’acqua raggiungesse le caldaie ma poiché era anche accaduto che l’unica dinamo presente a bordo era divenuta inutilizzabile essendosi bagnata, Reschia e Boldracchi non poterono trasmettere alle navi giunte in soccorso che la temuta esplosione delle caldaie non poteva più verificarsi. Intanto sopraggiungeva l’oscurità che impedì qualsiasi comunicazione visiva. Ad ogni modo le navi soccorritrici misero poi in mare le lance riuscendo ad imbarcare molti naufraghi.

Resosi conto che la nave era perduta il capitano Gulì fece calare le lance di salvataggio ma poiché ormai la nave era fortemente sbandata a sinistra, quelle di dritta cozzarono contro lo scafo danneggiandosi e divenendo inutili. Frattanto a bordo si era creato il panico e molti passeggeri caddero (o si gettarono) in mare e perirono annegati. Sul lato di sinistra la situazione era migliore e Maresco fece il possibile per calare varie scialuppe che però rivelarono in pieno il loro cattivo stato: molte facevano acqua dalle commessure e fu necessario per i passeggeri aggottare con i cappelli. Il capitano Gulì ordinò il "Si salvi chi può" mentre il caos a bordo aumentava anche a causa dell’oscurità assoluta (si era nel novilunio) e, mentre due passeggeri riuscirono a raggiungere a nuoto le altre navi, altri due si suicidarono sparandosi. Secondo alcune versioni anche il direttore di macchina Scarabicchi si sarebbe ucciso[2]. La stampa brasiliana riportò che alcuni naufraghi furono divorati dagli squali.

Comunque una parte delle scialuppe riuscì a raggiungere le unità di soccorso e, insieme alle lance provenienti delle altre navi, a portare in salvo 945 persone. Il Principessa Mafalda intanto alle ore 22,20, essendo ormai completamente invaso dall’acqua a poppa, si alzò di prua ed affondò rapidamente in 1200 braccia d’acqua (circa 2200 metri).
La notizia e le conseguenze [modifica]
La stampa italiana dell’epoca diede alla tragedia un taglio fortemente retorico ponendo l’accento sui vari episodi di eroismo. Ma una inchiesta giornalistica condotta molti anni dopo (nel 1956) dal settimanale L’Europeo stabilì con maggior esattezza come i fatti si erano svolti, senza nulla togliere al valore dimostrato da alcuni membri dell’equipaggio. Alla tragedia seguì subito un’inchiesta promossa dalla Marina e la commissione stabilì che l’asse dell’elica si era staccato per il cedimento di un giunto. Emerse anche il fatto che sei zattere di salvataggio collocate a poppa non poterono essere usate perché posizionate male. Un processo in seguito alla denuncia dei familiari delle vittime diede ragione a questi ultimi e la SNGI fu condannata al pagamento di forti indennizzi. A seguito della tragedia fu previsto dal Registro Navale Italiano che gli assi delle eliche di tutte le navi fossero dotati, da allora, di particolari dispositivi atti ad evitare problemi della stessa natura di quello che aveva causato il naufragio.

Il capitano Gulì fu insignito di medaglia d’oro alla memoria, così come gli altri ufficiali, il direttore di macchina Scarabicchi ed i marconisti Reschia e Boldracchi.

Scritto da Wikipedia   
Stampa