Iscriviti alla Newsletter:
Il Futuro è la Pace
Home Notizie A Veleia in mille ‘a lezione’ da Barbero
A Veleia in mille ‘a lezione’ da Barbero
Martedì 09 Gennaio 2024 10:02

A Veleia in mille ‘a lezione’ da Barbero “Attenti alle trasformazioni della nostra democrazia”

alessandro-barbero-veleia-ph-gianfranco-negri-212717.660x368.jpg

 

di Francesco Petronzio 

 foto Gianfranco Negri

A Veleia in mille ‘a lezione’ da Barbero “Attenti alle trasformazioni della nostra democrazia”

La popolazione, presa indistintamente, non è in grado di prendere decisioni. Non è titolata a farlo, non ha gli strumenti adeguati, e spesso finisce per fare dei disastri. “Una massa di individui inferiori, ignoranti e stupidi, in una società governata bene, non dovrebbero neanche prendere la parola. Invece, lì comandano addirittura. Meteci (immigrati, ndr) e schiavi si permettono di parlare: è lo scandalo della democrazia”. È scritto così sulla Costituzione degli Ateniesi (di Senofonte secondo alcuni, di Crizia secondo altri; da non confondere con quella di Aristotele).

 

Già, gli ateniesi. Quelli che la democrazia l’hanno inventata. Già presso di loro qualche voce contraria iniziava ad avere dubbi sulla bontà e l’efficacia di un sistema in cui la collettività era chiamata a decidere direttamente su ogni questione della polis. Perplessità che poi crebbero e si diffusero, con casse di risonanza ancora maggiori, nel corso dei secoli successivi, presso civiltà che la “cosa pubblica” la interpretarono in modi decisamente differenti e talvolta diametralmente opposti all’idea che oggi si ha della democrazia. E qualche dubbio, sicuramente, l’ha fatto sorgere, in almeno una parte dell’immensa platea che si è trovato davanti, Alessandro Barbero, che al Festival di Teatro Antico di Veleia di Paola Pedrazzini è ormai di casa.

Barbero sale sul palco – anzi, scende, data la conformazione del sito archeologico di Veleia Romana – cammina fino al suo leggìo e comincia la sua lezione. Direttamente, senza fronzoli, senza introduzioni, senza essere annunciato. D’altronde, non ha bisogno di presentazioni. Specialmente presso le quasi mille persone che la serata del primo luglio hanno deciso di trascorrerla al suo cospetto. E chissà, magari una monarchia guidata da lui qualcuno l’apprezzerebbe anche, non solo quelli che gli chiedono di “illuminare il sentiero in questo mondo di gaglioffi e peracottai”. Il professore sale in cattedra e fa una lezione di storia, partendo dal sesto secolo avanti Cristo fino ad arrivare ai giorni nostri in poco più di un’ora, senza abbassare mai il tono, e riesce nel miracolo – di cui solo lui è capace – di non far addormentare nessuno. Anzi, strappa pure qualche risata nel silenzio tombale di un pubblico ammaliato, che al termine lo applaude fragorosamente.

 

 

Dalla lectio magistralis di Barbero abbiamo imparato che la democrazia non garantisce che vengano prese le decisioni giuste. Qualcuno forse se n’era già accorto. Per come la concepivano i Greci, primi a utilizzarla, la democrazia non era il “governo” del popolo, bensì il “potere” della maggioranza che schiaccia gli avversari. Ma poi la storia è andata avanti, e gli interessi del popolo – almeno a parole – hanno iniziato a farli anche altre forme di governo: nell’Impero Romano la libertà era obbedire al sovrano, che governava per garantire il benessere collettivo; così Carlo I, pochi istanti prima di morire per mano di chi l’aveva condannato per alto tradimento, ribadì di aver sempre voluto la libertà del popolo. Allo stesso modo Napoleone, che di certo non instaurò una democrazia, e lo stesso fece addirittura il fascismo. Ma i dubbi sulla bontà e l’efficacia di un sistema democratico esistono, sebbene dal Novecento in poi sia l’unico a essere considerato valido. Esistevano già in Grecia – Senofonte (o Crizia) ne dà una prova – ne dubitavano George Washington e il suo successore John Adams e, per arrivare quasi ai giorni nostri, Bertrand Russell e Winston Churchill. Ma andiamo con ordine.

ANTICHI GRECI – “Qual è oggi il contrario di democrazia? Tutti diremmo che è la dittatura, non la monarchia. Perché la libertà, che la dittatura nega, è nel cuore della nostra idea di democrazia. Ci insegnano – dice Barbero – che la democrazia l’hanno inventata i Greci, ma in realtà quella democrazia non c’entrava nulla con concetti come la tolleranza o la libertà. Per i Greci esistevano tre possibilità di governare la città: se comandava uno solo, imponendosi con consenso e popolarità e non per diritto ereditario, era una tirannide. Il tiranno poteva essere un governante buono o cattivo. Se a governare era un gruppetto ristretto di ‘migliori’ allora era un’oligarchia. La terza via si verificava quando a comandare erano tutti: ma i Greci non la chiamavano ‘governo del popolo’, democrazia voleva dire ‘potere del popolo’. L’assemblea si riuniva, reclutata a volte con maniere brutali, e, per alzata di mano, votava. Ogni cittadino era libero di dire ciò che voleva. Il popolo sovrano era al di sopra di tutto: perfino i poliziotti, spesso stranieri, erano considerati schiavi e dovevano sottostare al popolo”.

“L’assemblea prendeva sempre decisioni giuste? No. Anzi, spesso le decisioni prese erano assurde. Per questo, i nemici della democrazia già allora dicevano che non ci si poteva fidare di quello che votava una massa di poveracci. Due ammiragli, dopo la vittoria contro Sparta nella Guerra del Peloponneso, furono arrestati dagli Ateniesi perché avevano lasciato annegare gli avversari in mare negando loro una sepoltura. Per il popolo quella legge era ferrea, e non importava se quella flotta aveva vinto contro un’acerrima nemica”. Per i processi venivano sorteggiate giurie popolari. “Bastava avere almeno trent’anni per candidarsi: le giurie erano composte da un minimo di 501 a un massimo di 1001 giurati. Dispari, per assicurare una maggioranza. Quando Socrate fu condannato a morte furono 501 cittadini a giudicarlo come un uomo di cui non ci si poteva fidare perché sovvertiva i valori collettivi”

Ma allora in cosa è “meglio” la democrazia? “Non tutti in Grecia pensavano che la democrazia fosse migliore. Era gradita alla povera gente, che nei regimi non democratici non contavano nulla, ma i ricchi – come scrisse Aristotele – preferivano l’oligarchia. Il punto non era capire quale regime garantisse le decisioni migliori: la maggioranza pretendeva di governare perché era la parte più grande della popolazione.

ROMANI – “Dall’Impero Romano fino a ieri è stata una nuova epoca. Gli Occidentali – prosegue Barbero – abituati a regimi non democratici, ufficialmente si impegnavano a governare per il bene e nell’interesse del popolo. I romani ripresero un modello – quello del ‘re sacro’ – che i Greci avevano snobbato rifuggito, considerandolo una cosa da barbari, perché in vigore presso i Persiani. Con la conversione di Costantino al Cristianesimo si fece strada l’idea che, così come in cielo c’era un solo dio, avrebbe dovuto esserci anche un unico imperatore, un sovrano messo lì da Dio che rispondesse solo a Dio. Lo pensava anche il longobardo Rotari, che legittimò il potere del re di far uccidere chi vuole senza essere contestato. A un certo punto, in un momento storico importante quasi quanto quello dell’invenzione della democrazia, questa idea fu messa in discussione: dopo l’anno Mille la Chiesa, sentendosi particolarmente forte, contesta agli imperatori e ai re il governo del mondo affermando di essere lei la destinataria del compito dato da Dio. Gregorio VII, in una lettera a un vescovo, affermava che lo scontro fra imperatore e papa era ridicolo. ‘Chi mai può pensare che l’imperatore sia più importante del papa?’, scriveva. Ad avvalorare la tesi della Chiesa anche il fatto che i Romani, pagani, non credevano neanche in Dio. ‘Come può una cosa fatta da miscredenti competere con una creata direttamente da Dio?. Imperatori, re e principi sono quelli a cui il diavolo ha messo in testa di voler comandare e si sono aperti la strada ammazzando e commettendo delitti, ma gli uomini sono tutti uguali’. Questo diceva la Chiesa”.

alessandro-barbero-veleia-ph-gianfranco-negri-212719.jpg

 

MEDIOEVO – “Nel Roman de la Rose (XIII secolo, ndr) fra le tante cose di cui si discute c’è anche il potere del re. Si dice che una volta non c’era bisogno di un sovrano perché le persone erano tutte uguali e vivevano in armonia. Poi arrivò un primo cretino che costruì uno steccato per delimitare la sua proprietà privata. Un altro, che entrò nel suo territorio, fu ammazzato. Da allora hanno iniziato a scannarsi per le proprietà”. A interrogarsi sull’opportunità di obbedire fu anche Tommaso d’Aquino. “Se il re non obbedisce alla legge allora il suo potere è ingiusto: non è più un re, ma un tiranno. Bisogna obbedire a un re ingiusto? No, i sudditi hanno il diritto di ribellarsi. E se il re resiste? I sudditi possono ribellarsi anche con la violenza, e se necessario possono anche ucciderlo”. “Solo in Italia – prosegue lo storico – si arrivò a città che si governavano da sole. Erano delle democrazie, ma la parola greca non veniva usata perché era stata dimenticata. Nei Comuni tutti partecipavano alle decisioni, era definito ‘governo di popolo’: in pratica, ‘democrazia’. I Bizantini, Romani d’Oriente che invece il greco lo parlavano, quando scoprirono il mondo dei Comuni italiani non esitarono a definirli ‘democrazie’.

ETÀ MODERNA – “Col Rinascimento si riscopre parola democrazia – dice ancora Barbero -. La parola compare in lingua italiana alla fine del Cinquecento, grazie a Tommaso Garzoni, che però la concepisce come l’effetto collaterale di un cattivo governo, un epilogo non desiderabile. “Quando la moltitudine ingiustamente oppressa – scriveva Garzoni – tratta dall’ira e spinta da furore, decide di vendicare gli oltraggi ricevuti, subito ne nasce la democrazia, cioè l’amministrazione del popolo”. “Obbedire al re voleva dire essere liberi – ricorda Barbero – il 30 gennaio 1649, all’indomani della Rivoluzione Inglese, re Carlo I fu processato per alto tradimento e condannato a morte. Nell’ultimo discorso che fece dal patibolo dichiarò che aveva sempre voluto la libertà del popolo, ma libertà voleva dire essere governati, non voler governare. Nel Medioevo e nei secoli successivi, le monarchie si autodefinivano ‘res publica’”.

ETÀ CONTEMPORANEA – “Fra Sette e Ottocento cambia tutto – spiega Barbero – con le Rivoluzioni americana e francese si pensa che, una volta rovesciati i cattivi governanti, poi il popolo deve stare a casa. Gli americani dicevano che tutti gli uomini erano uguali, ma c’erano parecchie incongruenze: una fra tutte, il primo presidente George Washington era proprietario di schiavi. Loro gridavano ‘We, the people’ (‘Noi, il popolo’), ma il popolo per loro era rappresentato solo da coloro che contavano”. Sulla democrazia si espresse anche il secondo presidente statunitense, John Adams: “La democrazia, finché dura, è più sanguinaria dell’aristocrazia e della monarchia. Ricordate: la democrazia non dura mai a lungo, si corrompe, si esaurisce e si suicida. Non c’è mai stata una democrazia che non si sia suicidata”. Anche Napoleone dichiarava di governare in funzione del popolo. “Il primo dovere è fare ciò che vuole il popolo”, diceva, ma poi precisava che “il popolo non sa quasi mai cosa vuole”. E ancora: “La Rivoluzione ha adulato il popolo innalzandolo a una sovranità che era incapace di sostenere”. Questo pensava Napoleone.

Nell’Ottocento, col trionfo del Liberalismo, anche la parola “democrazia” venne sdoganata. “Fra i primi, gli Stati Uniti, che si sentivano difensori di valori che esistevano solo da loro. Lincoln diceva che il popolo combatte le guerre affinché nazione rinasca nella libertà. Ma le belle parole venivano sistematicamente ignorate dai sovrani che continuavano a legittimarsi coi sudditi dicendo di essere mandati da Dio. Quando Vittorio Emanuele II di Savoia diventò il primo re d’Italia, nella formula non voleva che fosse scritto ‘per volontà della nazione’, come qualcuno suggeriva, ma ‘per grazia di Dio’. Poi si arrivò al compromesso e la formula fu scritta così: ‘Vittorio Emanuele II, re d’Italia per grazia di Dio e per volontà della nazione’. Ma se il dubbio (sulla legittimità del potere derivato da Dio, ndr) entra in circolo, è difficile farlo sparire”, chiosa Barbero

Barbero-2

NOVECENTO – “Se a inizio Ottocento la democrazia era sinonimo di ira, furore e sangue, all’inizio del Novecento diventò il normale obiettivo dei Paesi civili. Il Fascismo negava che la democrazia fosse il migliore dei regimi. Uno dei migliori filosofi, Giovanni Gentile, fascista, nel 1932 aiutò Mussolini a scrivere la voce ‘Fascismo, dottrina del’ sull’Enciclopedia Treccani. Nel pezzo scritto da Gentile si leggeva: ‘Il Fascismo è contro la democrazia che ragguaglia il popolo al maggior numero, abbassandolo al livello dei più’. Ovvero, più si allarga la massa e si abbassa il livello, il Fascismo non vuole questo: nel Fascismo governano i migliori. L’Italia si divide tra gerarchi e gregari: chi comanda e ‘il gregge’ chi obbedisce. Nella stessa voce Benito Mussolini scrisse: ‘Il fascismo respinge il complesso di idee democratiche, nega che il numero possa dirigere cose umane, nega che il numero possa governare attraverso consultazioni periodiche. Il Fascismo afferma la disuguaglianza feconda e benefica degli uomini. La democrazia è l’assurda menzogna dell’egualitarismo politico’. Nel 1932, però, dire di essere contro la democrazia era imbarazzante. E, perciò, Mussolini e Gentile ebbero una sorta di ripensamento. Con una capriola dialettica dissero che il Fascismo era la forma più schietta di democrazia, se il popolo era concepito qualitativamente e non quantitativamente, affermando il mito che il capo aveva sempre ragione. Dunque, anche un regime costruito, articolato, organizzato sul rifiuto degli ideali democratici e liberali subì il fascino della parola ‘democrazia’

 

alessandro-barbero-veleia-212691

“Anche l’Unione sovietica, che non corrispondeva affatto alla nostra idea di democrazia, si autodefiniva tale. In realtà, qualcosa di simile l’aveva con la definizione greca del termine: il ‘krátos’, ossia il potere che schiaccia i nemici. Ma la democrazia, che era l’unico potere accettato nel ‘900, continuava a essere sotto accusa da parte di alcuni pensatori. L’irlandese George Bernard Shaw diceva che ‘la democrazia è un meccanismo che ci assicura che non saremo governati meglio di quanto meritiamo’. Bertrand Russell definiva la democrazia come ‘la procedura con cui il popolo sceglie la persona a cui dare la colpa di tutto’. Churchill, invece, sosteneva che la democrazia era ‘la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre che erano state provate'”.                                                                               

GIORNI NOSTRI – “I Greci avevano una democrazia diretta: chiedevano al popolo cosa pensasse su tutte le questioni in discussione. Non lo consultavano ogni quattro o cinque anni come accade adesso. In quel modo a nessuno poteva venire il dubbio che le cose venissero decise chissà dove e chissà in che modo. Oggi, che le nostre democrazie sono rappresentative, questa domanda è legittima. Charles Bukowski, a tal proposito, diceva che ‘in democrazia prima voti e poi prendi ordini; nella dittatura è più semplice, non devi perdere tempo a votare’. Avvicinandoci ancora di più ai nostri giorni, Barack Obama sostiene che ‘la democrazia crolla quando una persona media sente che la sua voce non conta, che il sistema è sbilanciato verso i ricchi, i potenti e gli interessi privati’. Se paragoniamo le democrazie di oggi (nell’accezione di qualcosa di contrapposto alle dittature) – conclude Barbero – a quelle degli antichi Greci, allora siamo d’accordo con l’ex presidente americano Jimmy Carter, che diceva: ‘Siamo diventati un’oligarchia invece che una democrazia’. E, nell’antica Grecia, l’oligarchia presupponeva che il popolo dovesse essere schiavo. State attenti alle trasformazioni che sta attraversando la nostra democrazia“.

 
Scritto da GIANFRANCO BARBERO   
PDF
Stampa
E-mail
 

Aggiungi commento


Codice di sicurezza
Aggiorna